I
Pablo Neruda, Lentamente muore
Il testo della poesia è di Martha Medeiros, giornalista e scrittrice brasiliana nata nel 1961. Da anni passa come una catena di sant’Antonio dalle caselle di posta elettronica ai blog: una ricerca su Google produce quasi cinquantamila risultati per le parole Neruda e «muore lentamente», ma solo pochissimi siti segnalano l’errore («la Repubblica», 25 gennaio 2008)
Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che
fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia
aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o
della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non
risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere
vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto
di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una
splendida felicità.
II
Gabriella Giudici, Italo Calvino, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
Da Il fastidioso
Ho googlato la frase «un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi ecc.», mi sono uscite 10 pagine di risultati, che ho sfogliato per cercare quella dove si dice che non è una citazione da Calvino, ma un falso. Niente da fare. Ho dovuto googlare «un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi falso» e finalmente ho trovato l’articolo di Gabriella Giudici che spiega come è nato il falso. C’è da stupirsi se crediamo a tutto?
Nell’ottobre scorso (2012), riflettendo sul declino della scuola pubblica e sul particolare accanimento mostrato dai governi degli ultimi vent’anni nel portare a compimento l’opera di decostituzionalizzazione della pubblica istruzione, mi era tornato in mente L’apologo sull’onestà, uno degli ultimi interventi di Calvino sulla stampa, nel quale lo scrittore tratteggiava la singolare antropologia di un paese nel quale i «responsabili» od «onesti» non siedono nell’assemblea dei «rappresentanti del popolo», ma tra le macerie delle istituzioni da questa bombardate.
Avevo osservato, allora, che «un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere», concludendo che il senso di questa constatazione era meglio spiegato proprio dal testo calviniano che riproponevo in lettura.
Da quell’ottobre, questo post è stato rilanciato su facebook e visionato centinaia di volte, fino a smarrire la distinzione tra la mia introduzione e il testo calviniano.
Dopo l’affermazione erroneamente attribuita a Calvino, proseguivo: «mi pare che lo spieghi perfettamente Calvino in questo testo, tragicamente attuale, uscito su La Repubblica [ora in Romanzi e racconti, vol. 3, Arnoldo Mondadori Editore] del 15 marzo 1980, agli albori di un’era che oggi sta finendo insieme con il bene pubblico ancora difeso dai molti che
non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese [in cui] loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare.
La scuola è per definizione il luogo in cui gli insegnanti si chiedono di tutto, salvo quanto vale in denaro l’intelligenza che sto formando o quanta ne ho prodotta oggi, come test sempre più insulsi e dannosi chiedono di fare. Questo è lo spirito con cui ho riletto l’Apologo, in una delle molte interpretazioni possibili [qui, ad esempio, quella di Rodotà].
Sperando di aver reso un contributo alla leggibilità dell’insieme, vi lascio alla lettura di Calvino.
III
Prima vennero…
Da Wikipedia
Prima vennero… è in origine un sermone del pastore Martin Niemöller sull’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e delle purghe dei loro obiettivi scelti, gruppo dopo gruppo. La poesia è ben conosciuta e frequentemente citata, ed è un modello popolare per descrivere i pericoli dell’apatia politica, e come essa alle volte inizi con un odio teso ad impaurire obiettivi e di come alle volte vada fuori controllo.
[…]
Nei paesi di lingua spagnola la poesia – già propagandata ampiamente da attivisti sociali negli Stati Uniti almeno dagli anni sessanta in sostegno dei diritti civili e in opposizione alla Guerra del Vietnam – è stata spesso erroneamente attribuita a Bertolt Brecht sin dagli anni settanta, benché non esista evidenza alcuna che il drammaturgo tedesco abbia mai, nemmeno in forma variata, pubblicato o recitato tali versi.
I versi originari di Martin Niemöller recitano: «Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
Altre ricerche hanno fatto risalire la poesia a discorsi tenuti da Niemöller nel 1946. In ogni caso, il testo della poesia rimane controverso: ci sono molte varianti, che si differenziano sia per le persone citate (comunisti, socialisti, ebrei, cattolici, testimoni di Geova, omosessuali, malati incurabili etc), sia per l’ordine in cui sono citate.[5] Come afferma Richard John Neuhaus nel numero di novembre 2001 del suo diario online First Things, quando nel 1971 gli fu chiesta la corretta versione da riportare, Niemöller disse che non era molto sicuro di aver detto le famose parole ma, se la gente insisteva nel citarlo, lui avrebbe preferito questa versione che parla di comunisti, socialdemocratici, sindacalisti, me.
Quando la poesia fu declamata negli Stati Uniti nel 1950, la prima strofa che si riferiva ai comunisti era spesso omessa, probabilmente per via della nascita del Maccartismo e della paura rossa. La versione inscritta nel Monumento all’Olocausto della Nuova Inghilterra, a Boston, parla di comunisti, ebrei, sindacalisti, cattolici. Un’altra variante fu stampata dalla rivista Time il 28 agosto, 1989, commemorando il cinquantesimo anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. Questa versione parla di comunisti, ebrei, cattolici. La variante che si trova nella maggior parte dei manifesti e poster in lingua inglese parla di socialisti, sindacalisti, ebrei.
IV
Dio, patria e famiglia
Gira sui social una citazione attribuita a Margherita Hack:
Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico.
Che invece è della teologia Adriana Zarri (1919-2010).
leggi anche: Citazioni letterarie… sbagliate (Rai Cultura)