[I bambini ci parlano, 16 novembre 2019]
Dal 2008 a oggi nelle scuole pubbliche italiane e nelle università, nonostante si siano succeduti governi diversi, c’è stato un inquietante tratto di continuità: la progressiva riduzione del personale e dei fondi dello Stato. Contemporaneamente, si parla sempre più spesso di scuole migliori e peggiori. Si fanno classifiche. Non è un caso, credo.
Tutto è partito con la famosa autonomia scolastica che, di fatto, ha iniziato a mettere in concorrenza scuole di ogni ordine e grado. La scuola si è cominciata a chiamare scuola azienda, anche se non è proprio come una azienda che produce oggetti. E studenti e loro famiglie clienti.
Le classifiche affascinano, ma quando si parla di classifiche scolastiche o fra scuole, bisognerebbe spiegare bene quali sono i criteri di valutazione. Lo star bene a scuola? La severità dei docenti? La quantità di compiti? Le opportunità di preparare a un lavoro? La creazione di cittadini responsabili?
La capacità di lavorare bene in gruppo? Visto che da grandi, poi, si andrà a vivere e a lavorare insieme agli altri? Il dibattito è sempre aperto. Da secoli. Ecco, senza scendere troppo nei particolari, vorrei avvertire tante famiglie, anche reggiane, che guardano a queste classifiche – locali, nazionali, internazionali, – di informarsi sempre bene sui criteri di valutazione. Ne scopriranno delle belle.
Per esempio, all’estero ci sono scuole migliori di quelle italiane, certo, ma spesso non sono pubbliche e per frequentarle ci vogliono dai 30 ai 50mila euro all’anno per studente.
Mentre le nostre scuole pubbliche, con tutti i loro difetti, dal punto di vista educativo e formativo restano tra le migliori del mondo. Inoltre: la maggior parte di queste classifiche sono realizzate da enti economici – tipo l’OCSE, – che sono a favore della privatizzazione dell’istruzione, anche quella di base; e qui, privatizzazione, non vuol dire gratuità come è scritto nella Costituzione per le scuole dell’obbligo, ma costo.
Ancora: capita, nella scuola, da tempo, una cosa strana: più una scuola è difficile e selettiva, ma soprattutto frequentata da figli di persone benestanti, e più è considerata una buona scuola.
Anche se non è sempre e necessariamente così. Insomma, la privatizzazione crescente della scuola e le classifiche tra scuole – per me negative, – sono piuttosto normali, oggi, in un regime di concorrenza. Ma occorre stare molto attenti. Anche perché il marketing scolastico è ancora alle prime armi e si può inceppare in spiacevoli contrattempi.
Per esempio? Quella di cui si parla rischia di non essere più la scuola della Costituzione, specie del suo articolo 3. Competitività e concorrenza esasperate possono far male agli studenti – come ci dicono medici e psicologi da tempo, specie in età evolutiva. Ma possono far molto male anche alla scuola.
È solo di un anno fa la notizia, sul sito del MIUR, cioè del Ministero dell’Istruzione, di due licei, a Milano e a Roma: per convincere le famiglie a iscrivere i figli alle loro scuole, – sto parlando di rinomati Licei, di primi nelle classifiche dei licei della loro città e della loro regione, – oltre a pubblicare i sorprendenti dati che sarebbero stati raggiunti nello studio dai loro studenti, sostenevano di essere «scuole di qualità» anche perché, cito, «non è frequentata da studenti stranieri e disabili» e, cito, «sono frequentate da figli di famiglie benestanti». Poi ci chiediamo da dove nasce il razzismo.