ANTONIO VIGILANTE La scuola della tradizione (su “La scuola raccontata al mio cane” di Paola Mastrocola)

Paola Mastrocola ha raccolto diligentemente le chiacchiere da sala docenti e le ha esposte con stile brillante (trapuntato di punti sospensivi, come si conviene ad una scrittrice): così ha costruito per tre quarti un libro che si intitola “La scuola raccontata al mio cane” (Guanda, Modena 2004, pp. 194). Un libro che è ormai la Bibbia del docente italiano, il Manifesto degli scontenti, il Rapporto impietoso sullo sfascio della scuola riformata. Sfascio che sarebbe cominciato con l’introduzione del recupero. Prima, con l’esame di riparazione a settembre, c’era la scuola; dopo, una bolgia. Prima l’alunno studiava, si preoccupava, si responsabilizzava: riparava. Oggi l’alunno viene recuperato, quasi contro la sua volontà. E si porta dietro lacune che non colmerà mai. Nelle parole dell’autrice, è una catastrofe morale e civile, per così dire: “Al grido di ‘io ti recupero’ abbiamo incrinato, nei nostri giovani, il senso della responsabilità individuale, il dovere di rispondere delle proprie azioni, la certezza di pagare, in qualche modo, un prezzo” (p. 20). Addirittura. Nell’ormai lontano ’86 fui rimandato a settembre, tra l’altro, in francese. Non aprii il libro per tutta l’estate. Appena una ripassatina agli inizi di settembre. In tutta onestà, devo dire che quando mi presentai all’esame di riparazione non ne sapevo più che a giugno. La professoressa mi chiese di tradurre “nessuno verrà con me”. Ci pensai un po’, poi risposi: “Professoressa, non lo so. Vorrà dire che me ne andrò da solo”. Fui promosso.

La faccenda degli esami di riparazione funzionava così. Nessuna responsabilità, nessun dovere delle proprie azioni. Te la cavavi con poco. Chi voleva strafare poteva andare a ripetizione. Le ripetizioni erano una manna per i docenti, che potevano arrotondare in nero lo stipendio. Di sfuggita, è forse per questo che nelle sale docenti si tuona così spesso contro il recupero. Perché ora i corsi devono tenerli a scuola, tanto per i ricchi quanto per i poveri, guadagnando tre soldi. Sia chiaro: sono corsi inutili. Non impari in dieci lezioni quello che non hai imparato in un anno. Ma nemmeno prima imparavi granché. Una pacca sulla spalla, a settembre, e amici come prima. Amici come sempre.

A Paola Mastrocola non piace nemmeno l’accoglienza. Rimpiange i tempi in cui accoglieva gli alunni di prima leggendo Virgilio in latino. Naturalmente gli alunni di prima non conoscono il latino, per cui leggere loro Virgilio è come recitare formule magiche. Abracadabra ambaradanbimbum. A Paola Mastrocola piaceva così.

Nel 1984 mi iscrissi alla scuola superiore. Per la prima settimana ebbi un problema inconfessabile. Non ero un ragazzino stupido: semplicemente timido. E così per una settimana provai le virtù della mia vescica, ché non sapevo dove fosse il bagno e mi vergognavo a chiedere. Qualche volta uscii, contando di accodarmi a qualcuno che vi stesse andando, ma una jella nera volle che, quando uscivo io, i corridoi fossero misteriosamente deserti. Queste non sono cose da ridere, uno ci può restare secco. Trovo razionale ed umano, quindi, che oggi si prenda per mano l’alunno e gli si mostri dov’è la presidenza, dov’è la segreteria, dov’è la palestra. E, soprattutto, dov’è il bagno. Per le formule magiche c’è tempo.

L’autrice tuona, ancora, contro i libri di testo. “I libri di testo sono ridotti a eserciziari spesso insulsi, corredati da un minimo di esposizione teorica, il più possibile inframmezzata da figure, immaginette e fumetti. Il solo aprire un libro di testo ci porta agli anni dell’asilo, e credo che porti gli allievi più bravi a un grado di depressione notevole” (p. 176). Vediamoli, questi libri da asilo. Ho qui sulla mia scrivania alcuni libri di testo di filosofia e di scienze sociali. Ecco qui un volume di filosofia per la classe terza. Si intitola “La Comunicazione filosofica”. Comunicazione è una parola che non piace alla Mastrocola, come presto vedremo. Questo libro è di 736 pagine. Le immagini sono pochissime e molto piccole. In allegato c’è un piccolo manuale di logica. Non male, per un libro da asilo. Il manuale di scienze sociali per il triennio comprende, invece, ben dieci volumi. Ne prendo uno a caso. E’ sulla comunicazione (ancora questa benedetta comunicazione). Sono 383 pagine. Anche qui pochissime immagini. Anche questo non è male, per un testo adatto all’asilo. Quasi inutilizzabili, perché c’è troppa roba, troppe teorie, troppi approfondimenti. Ma certo non da asilo.

Potrei continuare, ma ormai avete capito il gioco dell’autrice: si prendono uno ad uno gli aspetti della scuola di oggi e se ne fa la caricatura, evocando per contrasto la scuola d’un tempo, dove tutto o quasi tutto filava. E’ un gioco facile: basta poco per fare la caricatura di qualcosa. Funziona con tutto. Non c’è nulla che non sia caricaturizzabile. Lo ammetto: non tutto è caricatuta. Su alcune cose non è possibile darle torto – è il caso dei progetti, dai quali pure può venire qualcosa di buono, mentre il più delle volte valgono ad intascare qualche soldino (magari come risarcimento per le perdure ripetizioni estive) con iniziative esilaranti. Ma le si dà ragione, quando occorre, a malincuore. Perché, ed è questo il punto, la critica di questo libro viene da una concezione della scuola che non mi piace.

C’è una frase del Ministero che più di tutte manifesta, per l’autrice, la crisi profonda della scuola. Eccola: la scuola è il luogo dove si impara a comunicare. Questa, sostiene, “è un’affermazione pesante, una decisione epocale” (p. 106): quella che dovrebbe indurre addirittura a bandire la letteratura dalla scuola. E questo perché la letteratura, sostiene, non è comunicazione, è anzi l’esatto contrario della comunicazione. Lo dice Valéry, assicura. E se non comunica la letteratura, non comunica nemmeno la professoressa di lettere. Perché un professore, una professoressa non devono mica comunicare; a loro basta trasmettere. C’è un patrimonio già fatto, loro compito è semplicemente quello di passarlo alle nuove generazioni. E’ in questo che consiste la Tradizione, dice. Sì, scrive questa parola proprio con la maiuscola.

Paola Mastrocola gioca molto con le parole, le annusa, le guarda di profilo: le promuove o le boccia. Singolare che non veda quanto è brutta la parola trasmettere, e quanto è bella, invece, la parola comunicare. Lo aveva visto Danilo Dolci, che proprio alla differenza tra trasmettere e comunicare ha dedicato analisi profonde. L’atto del trasmettere è una trasmissione. Trasmissioni sono quelle televisive: qui c’è il presentatore, lì lo spettatore, di mezzo lo spettacolo. Così la scuola, come la vorrebbe la nostra professoressa di lettere. Qui la professoressa, lì lo studente, e di mezzo lo spettacolo di Dante. Il quale stupirà, diletterà, suggestionerà, ma non farà riflettere. Perché se un alunno facesse osservazioni, magari qualche critica, la magia svanirebbe. Si passerebbe dal mondo colorato del trasmettere a quello problematico del comunicare. Dio ce ne scampi.

Non mi capita spesso di chiedermi se un libro sia di destra o di sinistra. Ma a volte succede. Basta una pagina, a volte una frase appena: e la voglia di continuare a leggere mi passa. E’ più o meno quello che mi è successo con questo libro. Certo, l’autrice ha le migliori intenzioni. Dice chiaro chiaro che la scuola non deve assecondare il mercato del lavoro, non dev’essere “connivente”. E va bene, nulla più di sinistra di questa affermazione. Ma se non connive con la società, con il mercato del lavoro, che fa? Che logica segue, che strumenti usa? Che cultura ha? Queste domande restano senza risposta. O meglio, una risposta c’è. La risposta è che bisogna fare una scuola difficile, per fare una scuola di sinistra. Il ragionamento fila. Sentite un po’: una scuola che sforna ignoranti avvantaggia i figli di papà, che nella vita se la cavano sempre; mentre i figli dei poveri restano privi degli strumenti per farsi strada nella vita. Bene, abbiamo seppellito don Milani e tutta la scuola di Barbiana.

Mi chiedo se Paola Mastrocola abbia mai visto un ragazzino povero. Non un ragazzino povero di Torino. Un ragazzino povero di Foggia, di Napoli, di Palermo. Uno che vive in una grotta, ad esempio: cinque figli, padre disoccupato. La facesse con lui, la scuola difficile. Lo leggesse a lui, il suo Virgilio.

E gli spiegasse, dopo averlo sbattuto per strada, che ha fatto una cosa di sinistra.

Antonio Vigilante

http://minimokarma.blogsome.com

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