JEAN-PAUL SARTRE Paracarro

[Da La nausea]

D’un tratto, dico, pietosamente: “Son contento di vederti”. L’ultima parola mi si strozza in gola: se era per questo avrei fatto meglio a star zitto. Di sicuro ora s’offende. Lo sapevo che il primo quarto d’ora sarebbe stato penoso. Una volta, quando rivedevo Anny, sia dopo un’assenza di ventiquattr’ore, sia al mattino, al risveglio, non sapevo mai trovare la parola ch’ella aspettava, quelle che convenivano al suo vestito, al tempo, alle ultime parole che avevamo pronunciato il giorno prima. Ma che cosa vuole? Non posso indovinarlo. Alzo gli occhi. Anny mi guarda con una specie di tenerezza. “Dunque non sei cambiato proprio affatto? Dunque sei sempre così sciocco?”.
Il suo viso esprime soddisfazione. Ma che aria stanca che ha.
“Sei un paracarro” dice “un paracarro al margine d’una strada. Tu spieghi imperturbabilmente e continuerai a spiegarlo per tutta la vita che Melun è a ventisette chilometri e Montargis a quarantadue. Ecco perché ho tanto bisogno di te”.
“Bisogno di me? Hai avuto bisogno di me durante questi quattro anni che non t’ho vista? Ebbene, sei proprio stata ben discreta”.
Ho parlato sorridendo: potrebbe credere che le serbo rancore. Mi sento sulla bocca questo sorriso falsissimo e mi trovo a disagio.
“Come sei sciocco! Naturalmente non ho bisogno di vederti, se è questo che vuol dire. Lo sai, non sei particolarmente gradevole per gli occhi. Io ho bisogno che tu esista, che non cambi. Tu sei come quel metro di platino che si conserva non so dove, a Parigi o nei dintorni. Non credo che nessuno abbia mai voglia di vederlo”.
“È qui che t’inganni”.
“Insomma, poco importa, io no di certo. Ma pure son contenta di sapere che esiste, che misura esattamente la decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Ci penso ogni volta che si prende le misure in un appartamento e che mi vendono della stoffa al metro”.
“Ah, sì?” dico freddamente.
“Ma tu sai che potrei benissimo non pensare a te che come a una virtù astratta, una specie di limite. Puoi ringraziarmi se ricordo ogni volta la tua faccia”.
Eccoci dunque tornati a quelle discussioni alessandrine che bisognava sostenere in altri tempi, quando avevo in cuore voglie semplici e volgari, come di dirle che l’amavo, di prenderla tra le braccia. Oggi non ne ho alcuna voglia. Salvo, forse, quella di tacere e di guardarla, di rendermi conto in silenzio di tutta l’importanza di questo avvenimento straordinario: la presenza di Anny davanti a me. E per lei, sarà uguale agli altri, questo giorno? Le mani non le tremano, a lei. Doveva avere qualcosa da dirmi il giorno in cui m’ha scritto – o magari è stato semplicemente un capriccio. Ora non se ne parla più da un pezzo.
Anny mi sorride d’un tratto con una tenerezza così visibile che mi salgono le lacrime agli occhi.
“Ho pensato a te molto più spesso che al metro di platino. Non c’è stato giorno in cui non abbia pensato a te. E mi ricordavo distintamente anche il più piccolo particolare della tua persona”.
Si alza e viene ad appoggiami le mani sulle spalle.
“Osa dire che tu ti ricordavi la mia faccia, tu che ti lagni”.
“Questa è malignità” dico io “sai benissimo che io ho cattiva memoria”.
“Vedi che lo confessi? Tu m’avevi completamente dimenticata. M’avresti riconosciuto per strada?”.
“Naturalmente. Non si tratta di questo”.
“Ti ricordavi, per esempio, il colore dei miei capelli?”.
“Certo! Son biondi”.
Lei si mette a ridere.
“Lo dici con una bella sicurezza. Adesso li vedi, non hai molto merito”.
Mi spazza i capelli con un colpo della mano.
“E tu, i tuoi capelli son rossi” dice, imitandomi: “la prima volta che t’ho visto avevi, non lo dimenticherò mai, un cappello floscio che dava sul malva e che stonava atrocemente coi tuoi capelli rossi. Faceva male agli occhi. Dov’è il tuo cappello? Voglio vedere se hai sempre così cattivo gusto”.
“Non lo porto più”.
“Non dirmi che ci sei arrivato da solo! Sì? Ebbene, mi congratulo. Era naturale, ma bisognava pensarci. Questi capelli non sopportano niente, stonano coi cappelli, coi cuscini delle poltrone, perfino con la tappezzeria delle pareti che gli fa da sfondo. Oppure bisognerebbe che tu ti calcassi il cappello fino alle orecchie, come quel feltro inglese che avevi comprato a Londra. Cacciavi il ciuffo dentro quella cupola e non si capiva nemmeno più se avevi ancora i capelli”.
E col tono deciso con cui si pone termine alle vecchie discussioni, soggiunge: “Non ti stava affatto bene”.
Non so più di quale cappello si tratti.
“E chi dice che mi stava bene?”.
“Credo proprio che tu lo dicessi! Non parlavi che di questo. E ti rimiravi di nascosto negli specchi quando credevi ch’io non ti vedessi.”
Questa conoscenza del passato mi opprime. Anny non ha nemmeno l’aria d’evocar ricordi, il suo tono non ha l’accento intenerito e lontano che si conviene a questo genere d’occupazione. Sembra che parli di oggi, tutt’al più di ieri; ha conservato ben vive le sue opinioni, i suoi puntigli, le sue avversioni d’una volta. Per me, al contrario, tutto è annegato in un’incertezza poetica; son pronto  a tutte le concessioni.
Con una voce senza intonazione, lei mi dice bruscamente: “Vedi, io sono ingrassata, sono invecchiata, bisogna che mi curi”.
Sì. E che aria stanca che ha! […]
Naturalmente non ci sono che io, io che odio, io che amo. E allora questo io è sempre la stessa cosa, una pasta che s’allunga, s’allunga… e si rassomiglia talmente che ci si domanda come la gente abbia avuto l’idea d’inventare nomi, fare distinzioni. Pensa come me. Sembra che io non l’abbia mai lasciata.
“Senti bene, – le dico, – da qualche momento penso ad una cosa che mi piace molto di più della parte di paracarro che tu m’hai generosamente dato: ed è che noi siamo cambiati insieme, allo stesso modo. Preferisco così, sai, piuttosto che vederti allontanare sempre di più, ed essere condannato a segnare eternamente il tuo punto di partenza. Tutto quello che m’hai raccontato tu ero venuto a raccontartelo io; con altre parole, è vero. Ma ci incontriamo all’arrivo. Non so dirti come questo mi faccia piacere”.
“Sì?- dice lei, mitemente, ma con un’aria caparbia, – ebbene, ad ogni modo avrei preferito che tu non fossi cambiato, sarebbe stato più comodo”. […]
Le racconto le mie avventure, le parlo dell’esistenza – forse un po’ troppo a lungo. Ella ascolta con applicazione, gli occhi sgranati, le sopracciglia alzate. Quando ho finito sembra sollevata.
“Ebbene, ma non pensi affatto quello che penso io. Tu ti lagni perché le cose non si dispongono attorno a te come un mazzo di fiori, senza che ti dia la pena di far niente”. […]
Riprendo tutto quello che m’è capitato e l’aggiusto. Così da lontano, non fa male, quasi quasi ci si cascherebbe. Tutta la nostra storia è abbastanza bella. Vi do qualche colpo di pollice e diventa una sequenza di momenti perfetti. […]
Restiamo un momento in silenzio. Scende la sera; distinguo a malapena la macchia pallida del suo volto. La sua veste nera si confonde nell’ombra che ha invaso la stanza. Macchinalmente prendo la mia tazza ove rimane ancora un po’ di tè, e la porto alle labbra. Il tè è freddo. Ho voglia di fumare ma non oso. Ho la penosa impressione che non abbiamo più nulla da dirci. Ancora ieri avevo tante domande da porle: dove era stata, che cosa aveva fatto, chi aveva incontrato. Ma tutto ciò m’interessa soltanto nel caso in cui Anny vi si fosse data con tutto l’entusiasmo. Ora sono senza curiosità: tutti questi paesi, tutte queste città per le quali ella è passata, tutti questi uomini che le hanno fatto la corte e che magari ha amato, tutto ciò non la riguardava, tutto questo le era in fondo talmente indifferente: piccoli sprazzi di sole sulla superficie d’un mare cupo e freddo. Anny sta di fronte a me, non ci vedevamo da quattro anni, e non abbiamo più niente da dirci.
“Adesso, – dice Anny d’un tratto, – bisogna che tu te ne vada. Aspetto qualcuno”. […]
“Allora, devo proprio lasciarti dopo averti ritrovata”. […]
“No, – dice lentamente, – no. Non mi hai ritrovata”. […]
Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginare altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare. Ma che cosa bisogna ricominciare? Soltanto ora comprendo quanto contassi su Anny per salvarmi, in mezzo ai miei più forti terrori, alle mie nausee. Il mio passato è morto. Il signor di Rollebon è morto. Anny è tornata soltanto per togliermi ogni speranza. Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata da giardini. Solo e libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte. Oggi la mia vita finisce. Domani avrò lasciato questa città che si stende ai miei piedi, e dove ho vissuto per tanto tempo […]. E di questo sole, di questo pomeriggio, non resterà niente, nemmeno un ricordo.
Tutta la mia vita è dietro di me. La vedo tutt’intera, vedo la sua forma e i suoi lenti movimenti che m’hanno condotto fin qui. C’è poco da dirne: è una partita perduta, ecco tutto […]. Ho voluto giocare la seconda ed ho perduto anche questa: ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre […]. Adesso farò come Anny, mi sopravviverò.
Mangiare, dormire. Dormire, mangiare. Esistere, lentamente, dolcemente, come questi alberi, come una pozza d’acqua, come il sedile rosso del tram […] e quest’istante, dal quale non posso uscire, che mi rinchiude e mi limita da tutti i lati, quest’istante di cui son fatto, non sarà più che un sogno confuso.

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