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Ho aperto un laboratorio di scrittura. Si intitola «Cappuccetto rosso a Tor Bella Monaca». Nasce da una storia che ho improvvisato all’inizio dell’anno con la mia prima azzurra, in presenza, dove spiegavo che esistono tante versioni di Cappuccetto rosso, non solo quelle canoniche di Perrault e dei fratelli Grimm. Perché non un Cappuccetto rosso a Tor Bella Monaca? E ho cominciato a raccontare di questa bimba con la felpa rossa e il cappuccio che esce di casa per andare a portare le focacce dalla nonna a via dell’Archeologia, si ferma dal tabaccaio e incontra un tizio che nel quartiere chiamano «il Lupo» (all’inizio l’abbordaggio avviene banalmente alla fermata dell’autobus) che se la vuole mangiare. Il resto della storia lo conoscete. Sabato mattina ho scritto la favola per intero con due finali alternativi e con un linguaggio piatto, con coso dice, coso risponde. Inizia così: «C’era una volta, tipo una settimana fa, alle Torri, una bella bimba, ma bellina davvero, che faceva uscire matta la mamma per non dire la nonna. Quella buona donna della mamma le aveva fatto una felpa con il coso rosso, il cappuccio, e per questo tutti la chiamavano cappuccetto rosso», ho tagliato la favola a metà e l’ho proposta alla classe. Ho chiesto di migliorarla e di inventare un finale. Ora vedo che nella mia casella di posta ci sono 14 messaggi in attesa, che si intitolano tutti Cappuccetto rosso e che non ho il coraggio di aprirli (scusate l’anacoluto, le/gli studenti si stanno abituando in modo graduale alla mia visione della lingua).
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