Da Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari 2019, pp. 96-103
Soltanto la scuola offriva a Jacques e a Pierre queste gioie. E, probabilmente, amavano in essa con passione ciò che non trovavano a casa loro, dove povertà e ignoranza rendevano la vita più dura, più tetra, come chiusa in se stessa; la miseria è una fortezza senza ponte levatoio.
Albert Camus dedicò un ampio spazio del romanzo autobiografico Il primo uomo al ricordo dell’esperienza scolastica. Sono davvero molto intense le pagine in cui descrive la gioia che ogni mattina spingeva Jacques (così Camus scelse di chiamare se stesso nel libro) e il suo amico Pierre verso la scuola, lungo un tragitto vissuto come una festosa scorribanda, e quelle in cui racconta le giornate passate in classe, dove in un clima di ferrea disciplina ma anche di grande rispetto i ragazzi trascorrevano con il maestro — il signor Bernard — un tempo denso di stimoli, emozioni e scoperte.
Il manoscritto è arrivato fino a noi incompleto e pieno di annotazioni, perché Camus morì in un incidente stradale prima di averne terminato la revisione. A margine di quelle pagine sulla scuola così felici, costruite intorno a una memoria ancora viva, entusiasta e riconoscente, l’autore scrisse questo appunto: «Allungare e fare l’esaltazione della scuola laica». Scuola laica stava per scuola pubblica, nel caso specifico la scuola dello Stato francese in terra coloniale che offrì a Camus — grazie a una borsa di studio — la possibilità di frequentare successivamente anche le scuole superiori, la scuola che permise a un ragazzo poverissimo, orfano di padre, allevato da due donne analfabete (la madre e la nonna) e cresciuto in un ambiente sociale miserrimo, di diventare uno degli intellettuali più importanti del Novecento. Ma non si tratta di un episodio edificante di «mobilità sociale», Non è certo un caso che Camus abbia usato la metafora del ponte levatoio (che per lui è rappresentato dalla scuola), una metafora che esalta la dimensione orizzontale dell’incontro, non quella verticale ed elitaria dell’ascesa individuale (e non è un caso che il «ponte» incontrato nel paragrafo precedente abbia un significato opposto rispetto a quello evocato dallo scrittore francese). Non si tratta neppure di un esempio da annoverare fra i successi dell’uguaglianza delle opportunità: non c’è alcuna distribuzione egualitaria di insegnanti capaci di individuare le potenzialità dei propri allievi, di risorse per coltivarle e di possibilità di affermarle nella società. Nulla di tutto questo. Quella narrata da Camus è una storia di cittadinanza costruita attraverso la scuola pubblica.
La scuola statale è ancora un ponte levatoio? È una domanda legittima, una questione sui cui riflettere con particolare attenzione di fronte agli esiti di un lungo e non ancora concluso processo di ristrutturazione del sistema scolastico che ha investito in forme diverse tutta l’Europa. Si tratta, in definitiva, di tornare a ragionare sul rapporto tra scuola pubblica e scuola statale. Non è un ragionamento sulla natura giuridica della scuola, ma sulla sua essenza civile, sul significato del concetto di pubblico e sulla possibilità di tradurlo in un sistema coerente di azioni politiche e pratiche educative. È una riflessione che va condotta intrecciando l’analisi storica e quella del presente, per evitare il rischio sempre incombente di generalizzazioni e mitizzazioni. La scuola di Camus, per intenderci, non è e non è mai stata un dato di fatto, il frutto di un’azione illuminata dello Stato, ma un campo di possibilità spesso non realizzate e sempre attraversato da contraddizioni e conflitti.
Questo aspetto meriterebbe una trattazione molto ampia. Limitiamoci, intanto, a richiamare alla memoria alcune esperienze maturate in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, periodo in cui affondano le radici gran parte delle acquisizioni metodologiche, organizzative e didattiche alla base delle più fertili innovazioni del sistema scolastico. La lista è molto lunga: il Centro educativo italo-svizzero fondato a Rimini da Margherita Zoebeli; la rivista fiorentina «Scuola e città» (diretta da Ernesto Codignola e poi da Lamberto Borghi) e l’omonima scuola elementare sperimentale; il Movimento di cooperazione educativa e i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva; l’associazione montessoriana per la formazione delle maestre d’asilo animata da Grazia Fresco; il Centro di educazione professionale per assistenti sociali di Roma guidato da Angela Zucconi e Maria Calogero; l’Unione nazionale di lotta contro l’analfabetismo diretta da Anna Lorenzetto; le esperienze raccolte intorno ad Aldo Capitini e Danilo Dolci tra l’Umbria, la Sardegna e la Sicilia. e quelle promosse da Adriano Olivetti a Ivrea e in Abruzzo, Molise e Basilicata; e infine le esperienze condotte da personaggi «eretici» all’interno della Chiesa cattolica come don Lorenzo Milani e don Zeno Saltini. Si tratta di esperienze che nascevano all’esterno della scuola statale, oppure da gruppi di insegnanti auto-organizzati impegnati a sperimentare nuove pratiche educative. Erano estremamente ricche dal punto di vista pedagogico, differenziate e pluraliste per quanto riguarda i punti di riferimento culturali, diffuse in tutto il paese e sviluppate in contesti sociali estremamente diversi. Anche quando si muovevano intorno o al di fuori delle istituzioni interpretavano lo spirito pubblico dell’educazione, perché la loro azione nasceva nel fervore della ricerca e nell’inquietudine (anche politica) di una società attraversata da intense trasformazioni e da aspri conflitti, una ricerca e un’inquietudine alimentate anche dalla constatazione che la scuola statale — cui la Costituzione attribuisce la funzione di garantire l’uguaglianza nell’accesso al sapere — era in quegli anni un luogo di selezione. La rappresentazione più incisiva della distanza tra il principio e la sua attuazione verrà, alla fine degli anni Sessanta, dalla Lettera a una professoressa scritta collettivamente nella Scuola di Barbiana insieme ai bambini che la scuola statale aveva prima discriminato e poi espulso. Le loro storie stavano a testimoniare la dismissione da parte dello Stato delle proprie funzioni pubbliche.
Più o meno negli stessi anni, a Bologna, Bruno Ciari e i suoi collaboratori inventarono la scuola a tempo pieno: il fortino della scuola statale veniva violato introducendo al suo interno l’esperienza maturata dagli insegnanti comunali nel doposcuola gestito dall’amministrazione locale. Questa vicenda è nota, anche se forse si tende a dimenticare o a sottovalutare il fatto che l’idea tempo pieno nacque al di fuori della scuola statale e che alla sua origine non c’era solo un’intuizione pedagogica, ma anche un intenso lavoro nel territorio per la costruzione di alleanze sociali. Meno noto è il risvolto antistatalista che Ciari avrebbe voluto imprimere alle politiche scolastiche. In un suo intervento del 1969 si spinse fino a candidare il Comune «ad assumere un ruolo dirigente per quanto riguarda tutta la scuola dell’obbligo» perché esso aveva le potenzialità per «essere più aderente ai bisogni dei cittadini, più efficiente del potere centralizzato». Per raggiungere questo obiettivo sarebbe stato necessario lottare — sosteneva — per ampliare i poteri dei Comuni e dei quartieri: «Poteri giuridici, possibilità economiche, libertà da assurdi vincoli centralistici».
Ciari era un uomo delle istituzioni e al loro interno spese per intero la sua vita professionale e politica, ma la sua esperienza lo aveva portato a credere profondamente nel valore dell’autonomia e immaginava che — per applicare questo principio alla scuola — fosse necessario liberarsi definitivamente del centralismo, della burocrazia e dell’autoritarismo connaturati al governo statale delle istituzioni scolastiche. Non possiamo sapere come sarebbe andata a finire: l’esperienza bolognese di Ciari, bruscamente interrotta dalla sua morte prematura, fu troppo breve perché fosse possibile aprire anche quel fronte. Ma le sue posizioni testimoniano un fermento antistatalista che in quegli anni attraversava anche i settori più istituzionalizzati del mondo scolastico e addirittura il Partito comunista, la cui ideologia era poco permeabile a simili prospettive.
La scuola statale è stata in grado di rinnovare se stessa e di interpretare — sia pure in modo intermittente e imperfetto — il proprio ruolo pubblico per le sollecitazioni provenienti dall’esterno, o da una minoranza dei suoi insegnanti che all’esterno cercava stimoli e riferimenti culturali. L’insieme di quelle esperienze mostra anche che l’azione pedagogica non veniva intrapresa solo da «esperti», non viveva all’interno di un recinto specialistico, ma era intrecciata con i fermenti sociali del tempo e quindi era in grado di coinvolgere i genitori, i cittadini, i lavoratori che avevano compreso il ruolo che la scuola avrebbe potuto giocare per la loro emancipazione sociale.
L’istruzione è un terreno sul quale si riflette il conflitto sociale e, a sua volta. produce conflitto. Nelle fasi in cui questo è stato più acuto, la dimensione pubblica e la dimensione statale sono state al centro di una tensione che le spingeva l’una in direzione dell’altra, verso una possibile sovrapposizione. Quando il conflitto si è indebolito, le due dimensioni sono tornate distanti tra loro. Si tratta quindi di una situazione che non è mai identica a se stessa e che deriva dalla mutevolezza delle dinamiche sociali, non da un principio normativo che — di per sé — non garantisce affatto la corrispondenza tra la scuola statale e le sue finalità pubbliche.
Tuttavia questa tensione non potrà mai produrre una coincidenza completa. Le ragioni sono state illustrate in modo solido ed esaustivo da Lamberto Borghi in uno studio di grande importanza che dovrebbe essere riletto attentamente: Educazione e autorità nell’Italia moderna, pubblicato nel 1951. Nella sua ricostruzione storica di lungo periodo che prende le mosse dal Risorgimento, Borghi mostra come le tendenze centralizzatrici che diventarono maggioritarie subito dopo l’Unità d’Italia contenessero (per loro stessa natura) forme di autoritarismo che avrebbero minato l’istruzione pubblica nei suoi elementi costitutivi: la libertà di insegnamento, la creatività e l’autonomia nell’apprendimento, l’autogoverno nell’organizzazione didattica. Anche i socialisti caddero nell’errore di individuare nello Stato il massimo strumento di garanzia per l’estensione del diritto all’istruzione e per la lotta all’analfabetismo: avevano ragione — scriveva Borghi — a rivendicare il fatto che l’istruzione riguardasse la società nel suo complesso, ma commettevano l’errore di confondere la società con lo Stato, cioè con un organismo uniforme, omogeneo e compatto, il cui sistema di istruzione centralizzato avrebbe inevitabilmente soffocato le forme di spontaneità individuale e sociale che rappresentavano l’essenza stessa del socialismo e di ogni ipotesi di mutamento finalizzato all’emancipazione delle classi subalterne.
L’esperienza della dittatura sollecitò Borghi a scrivere considerazioni dense di preoccupazione sul rischio che la democrazia potesse nascere e svilupparsi incorporando nelle nuove istituzioni democratiche gli elementi autoritari che allignarono nello Stato unitario e poi deflagrarono in quello fascista. Perché il nuovo Stato non si traducesse in un mutamento puramente esteriore degli istituti di governo era necessario mettere in crisi il principio stesso di autorità e le forme di vita civile basate sulla costrizione. E poiché credeva in uno stretto legame tra il mutamento della scuola e il progresso sociale, Borghi affermava che il rinnovamento educativo poteva derivare esclusivamente dalla «smobilitazione del potere centrale e [dall’]assunzione di funzioni sempre più vaste nella gestione della cosa pubblica da parte della società», e che ciò sarebbe potuto avvenire solo attraverso una «forte iniziativa periferica». Sembra di sentire l’eco delle sue parole in quelle di Bruno Ciari: nonostante la differente formazione, è evidente una consonanza che si rintraccia anche nelle conclusioni dell’analisi di Borghi, anche se dalle sue parole traspare un approccio più radicale.
La scuola pubblica, per adeguarsi all’esigenza di una società aperta, deve essere nelle mani dei cittadini e degli insegnanti, e non in quelle di una burocrazia centrale irresponsabile di fronte al pubblico. La distinzione fra «scuola pubblica» e «scuola di Stato» è perciò fondamentale.
Questa distinzione non è stata fatta, non si è ragionato abbastanza sulle possibili tensioni positive tra le due dimensioni, nonostante la storia del dopoguerra ne avesse mostrato l’esistenza e le potenzialità. La scuola statale non è stata in grado di produrre gli anticorpi che avrebbero potuto (e dovuto) preservare la sua funzione pubblica. La sua struttura centralizzata e burocratica, privata delle tensioni sociali e delle sperimentazioni che nei primi tre decenni del periodo repubblicano ne avevano limitato l’isolamento e l’autoreferenzialità, si è rivelata un luogo ideale per la costruzione di un sistema di valutazione centralizzato e burocratico, nemico di qualsiasi forma di autonomia, e per l’insediamento di nuove forme di divisione sociale.