Da «La sorellina»
Era una di quelle terse, luminose giornate estive che ci capitano in California quando comincia la primavera, prima che si installi la foschia. Le piogge sono finite. Le colline sono ancora verdi e dalla valle, oltre l’altura di Hollywood, si riesce a vedere la new sulle montagne pia alte. I negozi di pellicce annunciano le svendite annuali. I bordelli specializzati in vergini sedicenni fanno affari d’oro. E a Beverly Hills cominciano a fiorire gli alberi di jacaranda.
Erano cinque minuti che davo la caccia al moscone azzurro, aspettando che si posasse. Non voleva posarsi. Voleva solo svolazzare e cantare il prologo dei Pagliacci. Tenevo la paletta scacciamosche alzata a mezz’aria ed ero pronto. Sull’angolo della scrivania c’era una luminosa chiazza di sole, e sapevo che prima o poi era là che sarebbe atterrato il moscone. Ma quando lo fece, all’inizio neanche lo vidi. Il ronzio smise, ed eccolo là. E poi suonò il telefono.
Tesi la mano sinistra, lentamente, pazientemente, centimetro dopo centimetro, e alzai piano la cornetta e ci parlai dentro sottovoce. «Resti un attimo in linea, per favore».
Posai delicatamente la cornetta sul tampone di carta assorbente marrone. Il moscone era ancora là, lucido e verdazzurro e carico di peccato. Tirai un respiro profondo e calai con forza lo scacciamosche. Ciò che rimase del moscone veleggiò via per metà stanza e poi si posò sulla moquette. Andai a raccoglierlo tenendolo per l’ala ancora sana e lo lasciai cadere nel cestino della carta straccia.
«Grazie per avere aspettato» dissi nel telefono.
«Parlo con il signor Marlowe, l’investigatore?». Era una voce sottile, un po’ affannata, da ragazzina.
Risposi che ero il signor Marlowe, l’investigatore.
«A quanto ammonta il suo onorario, signor Marlowe?».
«Che con vorrebbe farmi fare?».
La voce si indurì leggermente. «Certo non posso dirglielo al telefono. È… è molto riservato. Prima di perdere tempo a venire nel suo ufficio, devo avere almeno un’idea…».
«Quaranta dollari al giorno, più le spese. A meno che non si tratti del tipo di lavoro che può essere svolto con una cifra a forfait».
«È decisamente troppo» disse la vocina. «Insomma, potrebbe venire a costare centinaia di dollari, e il mio stipendio è risicato e…»
«Dov’è, lei, adesso?».
«Be’, sono in un drugstore, praticamente attaccato al palazzo dov’è il suo ufficio».
«Avrebbe potuto risparmiare cinque centesimi. L’ascensore è gratis».
«Co… come dice?».
Ripetei tutto da capo. «Venga su e lasci che le dia un’occhiata» aggiunsi. «Se è in uno di quei guai che conosco, potrei darle un’idea piuttosto precisa…».
«Devo sapere qualcosa di lei» disse la vocina, molto risoluta. «È una questione molto delicata, molto personale. Non potrei certo parlarne con il primo venuto».
«Se è così delicata, forse ha bisogno di un’investigatrice donna».
«Santo cielo, non sapevo neanche che esistessero». Pausa. «Ma non credo proprio che un’investigatrice potrebbe andar bene. Vede, signor Marlowe, Orrin abitava in un quartiere molto difficile. O almeno, molto difficile secondo me. Il direttore della pensione è una persona estremamente sgradevole. Sapeva d’alcol. Lei beve, signor Marlowe?».
«Be’, ora che ne parla…».
«Non credo che mi interesserebbe assumere un investigatore che ricorra all’alcol, sotto qualunque forma. Sono contraria anche al tabacco».
«Le andrebbe bene, se sbucciassi un’arancia?».
Colsi l’esclamazione soffocata dall’altra parte del filo. «Se non altro, potrebbe parlare da gentiluomo».
«Sara meglio che si rivolga allo University Club, allora. Ho sentito che gliene sono rimasti un paio, di gentiluomini, ma non sono sicuro che le permetteranno di farne uso». Riattaccai.
Fu un passo nella direzione giusta, ma non mi portò molto in là. Avrei dovuto chiudere a chiave la porta e rintanarmi sotto la scrivania.
Cinque minuti dopo, sulla porta esterna della metà ufficio che uso come sala d’aspetto ronzò il cicalino. Sentii la porta richiudersi. Poi non sentii più niente. La porta fra me e l’altra stanza era semiaperta. Ascoltai e decisi che qualcuno doveva aver cacciato dentro la testa per sbaglio ed essersene andato. Poi vi fu un leggero bussare. E poi il tipo di tosse cui si ricorre allo stesso scopo. Tirai giù i piedi dalla scrivania, mi alzai e guardai fuori. Eccola là. Non ebbe bisogno di aprire la bocca perché capissi chi era. E non c’era stato mai nessuno che assomigliasse a Lady Macbeth meno di lei. Era una ragazza piccola, vestita con cura e dall’aria davvero ammodo, capelli castani ordinatamente lisciati all’indietro e occhiali senza montatura. Indossava un abito marrone dalla linea essenziale, e da una cinghia che aveva a tracolla pendeva una di quelle strane borse quadrate che fanno pensare a una Sorella della Misericordia armata di cassetta del pronto soccorso, che corre a curare i feriti. Sui lisci capelli castani portava un cappellino troppo piccolo, quasi una miniatura. Non aveva trucco, né rossetto, né gioielli. Gli occhiali senza montatura le davano un’aria da bibliotecaria.
«Non è quello il modo di parlare alla gente che le telefona» disse alquanto duramente. «Dovrebbe vergognarsi di se stesso».
«È che sono troppo orgoglioso per darlo a vedere. Entri». Le tenni aperta la porta. Poi tirai indietro una sedia per farla accomodare.
Si sedette su circa quattro centimetri di bordo. «Se parlassi così a uno dei pazienti del dottor Zugsmith, perderei il posto. Il dottore sta molto attento a come mi rivolgo ai suoi pazienti… anche a quelli difficili».
«E come sta, il vecchio? Non lo vedo da quando caddi dal tetto del garage».
Parve sorpresa, e molto seria. «Di certo lei non può conoscere il dottor Zugsmith».
Fra le sue labbra comparve la punta di una lingua decisamente anemica, che si mosse furtiva alla ricerca di niente.
«Io conosco un dottor George Zugsmith» dissi. «Sta a Santa Rosa».
«Oh, no. Questo è il dottor Alfred Zugsmith, e sta a Manhattan. Sa, Manhattan, Kansas, non Manhattan, New York».
«Dev’essere un altro dottor Zugsmith, allora. E lei come si chiama?».
«Non sono sicura di volerglielo dire».
«Sta dando solo un’occhiata alla vetrina, eh?»
«Credo che possa definirlo così. Se devo raccontare gli affari di famiglia a un perfetto sconosciuto, perlomeno ho il diritto di decidere se è una persona della quale posso fidarmi».
«Qualcuno le ha mai detto che è un bocconcino appetitoso?».
Gli occhi dietro le lenti scintillarono. «Spero proprio di no».
Presi una pipa e cominciai a riempirla. «Spero non è esattamente la parola adatta» dissi. «Butti via quel cappelluccio e si procuri un paio di quegli occhiali sexy dalla montatura colorata. Sa, quelli allungati, dalla forma orientale…».
«Il dottor Zugsmith non mi permetterebbe mai niente del genere» si affrettò a dire. E poi chiese: «Lo pensa davvero?», e arrossì leggermente. Avvicinai un fiammifero alla pipa e sbuffai il fumo dall’altra parte della scrivania, di fronte a me. Lei fece una smorfia, tirandosi indietro.
«Se mi assume» dissi, «è me che assume. Me. Così come sono. Se in questo me-mestiere spera di poter trovare qualche santo, è pazza. Le ho riattaccato il telefono in faccia, ma è venuta ugualmente. Quindi ha bisogno d’aiuto. Come si chiama, e qual è il suo problema?».