Da «De vulgari eloquentia», I 17-8
A questo punto occorre esporre con ordine le ragioni per cui chiamiamo con gli attributi di illustre, cardinale, regale e curiale questo volgare che abbiamo trovato: procedimento attraverso il quale ne faremo risaltare in modo più limpido l’intrinseca essenza. E in primo luogo dunque mettiamo in chiaro cosa vogliamo significare con l’attributo di illustre e perché definiamo quel volgare come illustre. Invero, quando usiamo il termine “illustre” intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende chiaro su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché, depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare: come Seneca e Numa Pompilio. Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l’onore a la gloria. Che possieda un magistero che lo inalza è manifesto, dato che lo vediamo, cavato fuori com’è da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli, emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e l’amico suo nelle loro canzoni. Che abbia poi un potere che lo esalta, è chiaro. E quale maggior segno di potere della sua capacità di smuovere in tutti i sensi i cuori degli uomini, così da far volere chi non vuole a disvolere chi vuole, come ha fatto a continua a fare? Che anche sollevi in alto con l’onore che dà, salta agli occhi. Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? Non c’è nessun bisogno di dimostrarlo. E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio. Per tutto ciò è a buon diritto che dobbiamo proclamarlo illustre.
E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui cioè si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro al cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge, sia che si pieghi verso l’interno sia che si apra verso l’esterno, così l’intero gregge dei volgari municipali si volge a rivolge, si muove a s’arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? Per cui merita pienamente di fregiarsi di un epiteto così nobile. Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve necessariamente abitare nella reggia a praticarla, e non vi è altra dimora degna di un così nobile inquilino: tale veramente appare il volgare del quale parliamo. Di qui deriva che tutti coloro che frequentano le reggie parlano sempre il volgare illustre; e ne deriva anche che il nostro volgare illustre se ne va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità in umili asili, dato che noi siamo privi di una reggia. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale, poiché la curialità non è altro che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza, viene chiamato curiale. Per cui questo volgare, poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli Italiani, è degno di essere definito curiale. Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli Italiani sembra una burla, dato che siamo privi d’una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata – come quella del re di Germania -, tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, così le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli Italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa.