DASHIELL HAMMETT Marionette sul ring

Da Raccolto rosso, Mondadori, Milano 2012, pp. 82-87

Il Maxwell era uno dei tanti alberghi su Union Street, con strette porte d’ingresso schiacciate tra i negozi e scale fetide che salivano fino alla reception al primo piano. La reception del Maxwell non era altro che un’ampia rientranza nel corridoio, con una rastrelliera di legno per le chiavi e la posta dietro un bancone che avevano un gran bisogno di essere ridipinti. Sul banco c’erano un campanello di ottone e uno sporco registro degli ospiti. Il posto era deserto.
Dovetti sfogliare otto pagine prima di trovare, scritto sul registro: “Ike Bush, Salt Lake City, 214”. Il compartimento della chiave con quel numero era vuoto. Salii altre scale e bussai alla porta della stanza 214. Nessuna risposta. Feci qualche altro tentativo, a vuoto, poi mi voltai e mi apprestai a scendere.
Qualcuno stava salendo. Mi fermai in cima alla scala, aspettando di vedere dii fosse. La luce era sufficiente.
Era un giovane snello, muscoloso. Indossava una camicia militare, un abito blu e un berretto grigio. Le sopracciglia formavano un unico segmento al di sopra degli occhi.
«Salve» esordii.
Lui si limitò ad annuire, senza fermarsi, senza dire niente.
«Vinci, questa sera?» ripresi.
«Spero» disse lui secco, superandomi.
Lasciai che facesse qualche passo verso la sua stanza prima di dire:
«Lo spero anch’io. Mi dispiacerebbe proprio essere costretto a rispedirti a Philly… Al».
Fece un altro passo. Lentamente, molto lentamente, si girò, appoggiò una spalla alla parete, assunse un’aria sonnolenta e grugnì: «Eh?»
«Mi irriterebbe se tu finissi davvero al tappeto alla ripresa, o a qualsiasi altra ripresa, contro un brocco come Kid Cooper» dissi. «Non farlo, Al. Tu non vuoi tomare a Philadelphia».
Il giovane incassò il mento nel collo e mi si avvicinò. Quando fu a distanza di braccio, si fermò, girandosi leggermente sul piede sinistro. Le mani pendevano lungo i fianchi. Le mie erano infilate nelle tasche del soprabito.
«Eh?» fece nuovamente lui.
Io dissi:
«Cerca di ricordartelo: se questa sera Ike Bush non vince, domattina Al Kennedy si ritrova in viaggio verso est».
Sollevò di qualche centimetro la spalla sinistra. Mossi la pistola all’interno della tasca, giusto quanto bastava.
«Chi te l’ha raccontato che non vinco?» mugugnò lui.
«Solo una storia che ho sentito. Ho pensato che non ci fosse niente di vero, a parte, forse, Philadelphia».
«Dovrei spaccarti la mascella, grasso figlio di puttana».
«Il momento giusto per provarci è adesso» gli consigliai. «Tu vinci, stasera, e sarà difficile che mi rivedrai. Perdi, e mi rivedrai, invece. E le tue mani non saranno libere».
Trovai MacSwain da Murray, una sala da biliardo sulla Broadway.
«Ci hai parlato?» chiese.
«Si. Tutto fatto… Sempre che non lasci la città, o dica qualcosa a chi gli sta dietro, o ignori quanto gli ho detto, o…».
MacSwain cominciò a diventare nervoso, molto nervoso.
«Meglio che stai attento» mi avvertì. «Quelli possono anche cercare di farti fuori. Lui… Devo vedere un tizio giù in strada».
E a quel punto Bob MacSwain si dileguò.

A Poisonville gli incontri di pugilato si tenevano in un grosso ex casinò di legno alla periferia della città che un tempo era stato un parco di divertimenti, Quando ci arrivai, alle otto e mezzo, sembrava ci fossero tutti gli abitanti di Poisonville, pigiati nelle file di sedie pieghevoli in platea, pigiati ancora più stretti sulle panche delle due balconate cadenti.
Fumo. Tanfo. Caldo. Frastuono.
Il mio posto era in terza fila, al bordo ring. Mentre lo raggiungevo notai Dan Rolff in un posto di corridoio non lontano, con Dinah Brand seduta accanto. Alla fine dal parrucchiere c’era andata. aveva i capelli più corti e ondulati e avvolta com’era in un’ampia pelliccia grigia faceva pensare a un mucchio di soldi.
«È su Cooper che punti?» mi chiese dopo che ci eravamo scambiati i saluti.
«No. Tu giochi pesante su di lui?».
«Non quanto vorrei. Abbiamo aspettato nella speranza che le puntate salissero, invece ne sono andate in malora».
«In città lo sanno tutti che sarà Bush ad andare giù» dissi.
«Ho visto cento dollari su Cooper quattro a uno appena qualche minuto fa». Mi protesi oltre Rolff e spinsi le labbra dove il collo della pelliccia nascondeva l’orecchio di Dinah, bisbigliando: «La festa non si fa più. Meglio sterzare le scommesse finché sei ancora in tempo».
I grandi occhi arrossati si spalancarono e si oscurarono in un misto di ansia, avidità, sospetto.
«Parli sul serio?» disse con voce roca.
«Già».
Dinah si mordicchiò le labbra la fronte e chiese:
«Chi te l’ha detto?»
Non glielo dissi. Lei continuò per un po’ a mordicchiarsi il labbro, poi domandò:
«C’è dentro anche Max?».
«Non l’ho visto. È qui anche lui?».
«Immagino di sì» lei distante, lo sguardo perso chissà dove. Le labbra si muovevano come se facesse mentalmente delle somme.
«Prendere o lasciare» insistetti. «Ma è cosa fatta».
Dinah si protese verso di me per guardarmi dritto negli occhi, poi strinse i denti, apri la borsetta e ne tirò fuori un rotolo di contante grosso quanto una cuccuma da caffè. Infilò parte dei soldi tra le dita di Rolff.
«Allora Dan, puntali su Bush. Hai comunque ancora un’ora controllare le quotazioni».
Rolff intascò i soldi e si allontanò per quanto doveva. Mi sistemai sulla sua sedia. Dinah mi pose una mano sull’avambraccio e disse:
«Che Dio ti aiuti se mi hai fatto buttaœ via tutta quella grana».
Feci finta di trovare quell’idea ridicola.
Ebbero inizio gli incontri preliminari, robetta da quattro round tra schiappe assortite. Continuai a cercare Thaler con Io sguardo, senza riuscire a vederlo. Accanto a me intanto Dinah continuava ad agitarsi, prestando scarsa attenzione a quanto accadeva sul ring. Passò il tempo a chiedere dove avessi avuto la dritta, a minacciarmi di tutti i supplizi dell’inferno se la cosa fosse andata storta.
Era in corso la semifinale quando riapparve Rolff che consegnò alla ragazza una manciata di scontrini. Dinah ci si stava consumando gli a esaminarli uno per uno quando mi alzai per tornare al mio posto. Senza sollevare lo sguardo disse:
«Dopo che è finita, aspettaci fuori».
Kid Cooper salì sul ring mentre mi aprivo un varco verso il mio posto. Era un ragazzone rubicondo dai capelli color paglia, di corporatura robusta, con la faccia ammaccata e troppa carne al di sopra dell’elastico dei calzoncini color lavanda. Ike Bush, alias Al Kennedy, s’infilò tra le corde all’angolo opposto.
Era decisamente più in forma di Cooper, fisico snello, scolpito, da serpente. Ma in volto era pallido, teso.
Vennero presentati al pubblico, si spostarono al centro del ring per le solite istruzioni, fecero ritorno ai rispettivi angoli, scivolarono fuori dagli accappatoi, sciolsero i muscoli afferrandosi alle corde, il gong suonò e l’incontro ebbe inizio.
Cooper era un panzone goffo. Lanciò un paio di uncini larghi che, se fossero giunti a destinazione, avrebbero anche potuto fare danni. Ma chiunque dotato di due piedi era in grado di evitarli. Bush aveva classe: buon lavoro di gambe, un sinistro svelto, controllato, un destro che partiva come un fulmine. Ci avesse provato, provato davvero, schierare sul ring quel ragazzo asciutto contro sarebbe stato come sparare in faccia a un cieco. Solo che non ci stava affatto provando. Quello che stava provando a fare era non vincere, lavoro tutt’altro che da poco.
Cooper si muoveva per tutto il ring dondolandosi sui piedi piatti, mulinando i suoi ganci troppo larghi contro qualsiasi cosa, compresi i pali degli angoli e le luci. La sua tecnica di combattimento era scaricare pugni a destra e a sinistra nella speranza di colpire qualcosa. Bush continuò a muoversi dentro e fuori della sua guardia, toccando l’avversario con il guantone ogni volta che lo voleva, senza metterci niente però, nel guantone.
La platea cominciò a fischiare prima ancora che il primo round fosse finito. Il secondo round fu ugualmente farsesco.
Non mi sentivo granché bene. A quanto pareva, a Ike Bush alias Al Kennedy non aveva fatto troppo effetto l’incontro avuto con me quel pomeriggio. Con la coda dell’occhio vidi Dinah Brand che cercava di attirare la mia attenzione. Era su tutte le furie. Feci in modo che non riuscisse ad attirarla.
La farsa continuò anche nel terzo round, scandita dai rari Fuori! Fuo-ri! Dagli-un-bacio! In-con-tro! In-con-tro! della folla. Le due marionette arrivarono a danzare verso il mio angolo proprio in una pausa tra le grida.
Mi portai le mani a megafono attorno alla e urlai:
«Si torna a Philly, Al!».
Bush mi stava voltando le spalle. Agguantò Cooper e lo scaraventò contro le corde, in modo che lui, Bush, rivolto verso di me.
Da qualche altra parte dell’ ex casinò arrivò una seconda voce:
«Si torna a Philly, Al!»
MacSwain, ipotizzai.
Chissà dove, verso il fondo degli spalti, un ubriaco levò la faccia gonfia e urlò la stessa cosa, sbracandosi dalle risate come fosse la barzelletta dell’anno. Anche altri raccolsero la battuta, gridandola in coro per un unico motivo: a Bush pareva dare fastidio.
I suoi occhi si spostavano a scatti da destra a sinistra sotto la striscia nera delle sopracciglia.
Uno dei ganci sconclusionati di Cooper colpì il ragazzo magro sul lato della mascella.
Ike Bush crollò ai piedi dell’arbitro.
In due secondi l’arbitro aveva già contato fino a cinque, ma il gong lo interruppe.
Guardai Dinah Brand e risi. Non c’era nient’altro da fare. Dinah Brand guardò me e non rise affatto. La sua faccia era malconcia quanto quella di Dan Rolff, solo più feroce.
I secondi di Bush lo trascinarono nel suo angolo e, senza troppa convinzione, lo massaggiarono. Lui riaprì gli occhi e si guardò i piedi. Il gong suonò di nuovo.
Kid Cooper caracollò in avanti, tirandosi su i pantaloncini.
Bush aspettò fino a quando quel buffone non fu al centro del ring. Poi gli andò incontro, rapido.
Il sinistro di Bush partì in avanti, praticamente scomparendo nel ventre lardoso di Cooper. «Ugh!…» fece Cooper e arretrò, piegato in due.
Bush lo raddrizzò con un montante destro in bocca, poi affondò nuovamente il sinistro. «Ugh!» mugolò ancora Cooper, che ora aveva qualche problema con le ginocchia.
Bush lo colpì di nuovo, un secco uno-due ai lati del cranio, alzò e tirò indietro il destro, spinse accuratamente in posizione la testa di Cooper con un sinistro allungato e assestò un destro decisivo da sotto la propria mascella a quella dell’avversario.
Tutti, tutti quanti là dentro, sentirono il pugno.
Kid Cooper andò al tappeto, rimbalzò, rimase al tappeto. L’arbitro impiegò mezzo minuto per contare i dieci secondi. Avesse anche impiegato mezz’ora, non avrebbe fatto nessuna differenza. Kid Cooper era fuori combattimento.
Alla fine l’arbitro, dopo aver tirato in lungo più che poteva, si decise a sollevare il braccio di Bush. Nessuno dei due aveva l’aria troppo contenta.
Un barbaglio colpì il mio sguardo. Una striscia luminosa e argentea guizzò giù da una delle piccole balconate.
Una donna urlò.
La striscia argentea terminò il proprio volo sul ring, con un rumore a metà fra il tonfo e lo schiocco.
Ike Bush strappò il braccio dalla presa dell’arbitro e crollò sul corpo di Kid Cooper. L’impugnatera nera di un coltello sporgeva dalla base del collo di Ike Bush.

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