FILIPPO MARIA PONTANI La legge che rende inutile insegnare

[«Il Fatto quotidiano», 27 marzo 2018]

L’alternanza scuola lavoro è stata resa obbligatoria dalla riforma della Buona Scuola, la legge 107/2015. Introdotta inizialmente nel 2003, sulla carta è una metodologia didattica in cui gli alunni affiancano un periodo di formazione teorica in classe con uno di esperienza e pratica presso un’azienda. Nella pratica è diventata spesso l’occasione per alcune imprese di avere lavoro non retribuito per le mansioni meno qualificate, spesso gli studenti lamentano di fare poco o nulla.

Perché mai rispettare
dei beni che non danno utilità?
Non ha senso!

Mio caro, in verità,
vi ritenete un grande: ma, alla prova,
a quanta gente date da mangiare?

A che vi serve leggere? A chi giova?…
Lo Stato non sa proprio cosa farsene
di gente che non spende.

Così, in una fortunata favola di La Fontaine (I vantaggi del sapere), un ricco decantava il lavoro utile facendosi beffe della dottrina di un suo concittadino sapiente – salvo poi, dinanzi a un imprevisto rivol­gimento della storia, essere spaz­zato via per mancanza dei minimi strumenti culturali.

Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’I­talia a devolvere un numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari d’altro ti­po) ad attività professionali non retribuite: attività che in molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma, svolgendosi durante l’orario di lezione, porta­no i giovani a perdere ore d’inse­gnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il martedì tor­nano quelli ma mancano i 5 che so­no in biblioteca, e il mercoledì in­vece altri 2 che vanno in aeropor­to). Con quale profitto per l’inse­gnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto pro­pedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è facile immaginare.

Questo è il sistema che la “Buona scuola” renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di “Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei giusti limiti, non imporre a un liceo clas­sico campano o a uno scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto – lo ha denunciato abilmente Christian Raimo – senza che sia chiaro a nessuno il disegno pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e in griglie in cui si valuta 1’ “imparare a imparare”, l’as­similazione della “cultura d’azienda” e simili amenità.

Dopo aver sancito ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse), e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro laddove in real­tà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis, l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di fai danni: in queste settimane, infatti in previsione della chiusura dell’anno scolastico e con partico­lare riferimento alle classi termi­nali, i Consigli di classe devono stabilire le modalità della valuta­zione di questa attività “on thè job” (sic), che non ha una casella a sé stante (none, per intenderci, u- na “materia” in più), ma deve ri­fluire e influire sulla valutazione disciplinare complessiva dello studente.

La Guida operativa del ministe­ro in materia è, come spesso, poco chiara: prevede in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in iti­nere dei tutor esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli allievi hanno il massimo, così non si creano pro­blemi), le autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, an­che se poi, in via confidenziale, molti confessano di non aver fatte assolutamente nulla in quelle ore) e che poi il Consiglio di classe metta in opera strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina di due pagine?) pei giudicare e certificare un’attività che si è svolta per intero fuori dalle mura della scuola.

Accade così che alcune scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far media; con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al teme dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su tut­te le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia” “lingua italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se – per dire – uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e il percentuali – per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati ne compiti in classe o nelle interrogazioni – che ogni scuola decide a sue modo (50 e 50? 60 e 40?).

Anche per quanto riguarda l’esame di Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.

In una scuola in cui – come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno – studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente) orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.

Che qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un vero miracolo.

José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre d dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovate nell’istituto tecnico che frequentava, in un angolo re­moto del Portogallo, un professore di lettere serio severo e preparato. Chissà se oggi gli avrebbe pre­stato altrettanto credito.

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