MAURO GIORDANI Digitalizzazione, privatizzazione, gerarchizzazione: PNRR e INVALSI porta d’accesso alla scuola de-umanizzata

[Genitore Attivo, 12 maggio 2023]

La scuola pubblica, quella disegnata dalla Costituzione o, per meglio intenderci, quella di tutti e tutte, è da decenni sotto l’attacco della furia privatizzatrice e di subordinazione alle proprie logiche da parte del capitalismo liberista.

Le politiche educative degli ultimi tre decenni in Italia si inscrivono in un quadro internazionale che ha attribuito agli apparati formativi un compito specifico: quello di formare capitale umano per garantire lo sviluppo del sistema produttivo, su indicazioni puntuali dei grandi gruppi industriali e finanziari. Questa pedagogia economica intende formare un nuovo tipo umano: un produttore/consumatore strategico e competente.

Le linee di riforma della “nuova scuola” subordinata agli interessi capitalistici fanno perno su decentralizzazione e trasformazione dell’istruzione da funzione dello Stato a servizio, su un orientamento al mercato sempre più evidente con enfasi sul capitale umano, sulla imprenditorializzazione, sulla

digitalizzazione. Le politiche dell’insegnamento sono improntate a valori e tecniche tipiche del settore privato, con un uso sempre più massiccio di indicatori e strumenti di misurazione standardizzati.

Il tema del merito corre trasversalmente a queste linee, il cui vero obiettivo è gerarchizzare e disciplinare: studenti, insegnanti, scuole.

Le categorie concettuali e l’idea di scuola con cui ci confrontiamo oggi, a ben vedere erano già presenti nella cultura che si andava consolidando nei primi anni ’90, a partire dai primi protocolli di intesa tra Confindustria e Ministero della (allora) Pubblica Istruzione che intendevano “offrire agli operatori scolastici l’opportunità di trasferire nel proprio sistema elementi di cultura industriale e manageriale”, per tentare di abbattere le distanze tra il mondo del “sapere” e della realizzazione economica.

A seguire, la pietra miliare dell’innovazione della scuola in chiave aziendalista è senza dubbio l’Autonomia scolastica – e la connessa dirigenza conferita ai capi d’istituto – introdotta da Luigi Berlinguer con il plauso dei sindacati concertativi.

Dalla “babele” di successive riforme – proposte, parzialmente o totalmente attuate, solamente annunciate… – e dai documenti ministeriali di quegli anni emerge una nuova caratterizzazione dell’attività didattica. Tali riforme, sebbene vengano presentate come determinate dalla volontà di recepire e sistematizzare la produzione emersa dall’attività delle scuole, vanno in direzione esattamente contraria. Basti qui ricordare la legge 148 del 1990 che partendo da tali presupposti arrivava poi alla conclusione di “eliminare” Tempo Pieno e sperimentazioni.

I vari ministri riformatori che si succedono sono abilissimi ad utilizzare la critica prodotta alla cultura di classe e nozionista nel corso degli anni ’60 e ’70 per introdurre una nuova critica agli insegnanti. Lo step by step del cognitivismo si rafforza attraverso il pensiero costruttivista ma “fondamentale” diviene il saper valutare le varie fasi del processo di apprendimento: la docimologia diviene il perno dell’attività didattica. Da “insegnare a insegnare” si è passati da parte di Università ed Enti vari a “insegnare a valutare”, introducendo test e prove “oggettive” e ribadendo in tutte le salse che agli insegnanti mancava la cultura della valutazione: si tenta di modificare in questo modo surrettizio l’attività dei docenti partendo dalla coda del percorso educativo-didattico.

Il primo decennio degli anni Duemila vede perciò la presenza sempre più pervasiva dell’Invalsi e di tutto l’armamentario ideologico che lo sostanzia. La fissazione dell’attribuzione di un valore porta in secondo piano ogni percorso laterale che non corrisponda a quanto prefigurato dal “protocollo“ docimologico. Apprendere le nozioni diviene inutile e ciò che deve essere valutato non è ciò che si è appreso ma come lo si è appreso. Adesso i docenti devono insegnare ad “imparare ad imparare”.

Questo intervento di destrutturazione in profondità della scuola, questa “potente distruzione creatrice” è stata sostenuta da un’attenta revisione del linguaggio, una neolingua che mira a suggestionare e mistificare, che vuole presentarsi nel segno della complessità e della scientificità, mentre di fatto propone solo espressioni ad effetto non motivate: una sorta di spettacolarizzazione dei concetti ottenuta con un linguaggio opaco, ottuso ma altamente politico nella sua natura e nei suoi effetti. Le nuove parole d’ordine diventano così competenze, innovazione, merito, qualità, valutazione oggettiva, apprendimento permanente: concetti ad alto tasso ideologico sono presentati come discorsi educativi ineluttabili.

Uno dei cardini principali di questa nuova idea di scuola è la valutazione standardizzata, apparentemente un aspetto tecnico, oggettivo, ma in realtà profondamente politico e culturale, poiché strettamente legata all’idea che ha l’OCSE (e a cascata i decisori politici nostrani) di istruzione, cioè una crescita di capitale umano, un accumulo di competenze, che vanno costantemente misurate e riqualificate: una logica da allevamento intensivo, che parte da un input e produce un output, un risultato atteso che si può misurare con un test. E poiché non esiste merito senza metrica, si saldano insieme strumenti come il test Invalsi e concetti quali trasparenza, oggettività, successo, qualità della scuola, ecc.

Intorno a questa idea di valutazione si è realizzata progressivamente la costruzione di un’egemonia culturale, grazie a un’informazione schiacciata su una precisa e maniacale rappresentazione della scuola e grazie anche al supporto dell’Accademia, che collabora attivamente con l’Invalsi. Per questo è stato recentemente concepito l’artificio retorico di legare il test Invalsi ai concetti di dispersione scolastica: più ancora che strumento meritocratico, il test Invalsi sembra essere diventato così uno strumento di contrasto alle disuguaglianze. E dunque, in periodo di PNRR e di attenzioni ai divari, ecco che nasce l’intuizione di legare il test alla fragilità degli apprendimenti.

Grazie al PNRR, che con il Piano “Scuola 4.0” si pone in continuità con le riforme precedenti – tutte coerenti tra loro – accelerandone l’attuazione grazie ai vincoli dei fondi europei e alle decretazioni d’urgenza, nell’estate scorsa si è realizzata l’attribuzione di 500mila euro alle scuole sulla base proprio dell’indicatore Invalsi “di dispersione implicita” (o “indicatore di fragilità”); pertanto si esplicita l’intima connessione PNRR/Invalsi, in quanto tutti gli aspetti – di sistema, oppure relativi a singoli individui – derivano dal medesimo strumento: un test standardizzato.

Il PNRR modifica i rapporti scuola-stato attraverso dispositivi legislativi d’urgenza; inaugura una ripartizione di risorse di tipo tecnocratico, sottratta alla possibilità di accertamento pubblico e orientata a target misurabili; rafforza la dimensione di mercato, attraverso la progettazione per bandi aperti ad una moltitudine di soggetti privati in concorrenza tra loro. Inoltre, all’interno delle scuole consolida processi verticistici finalizzati a massimizzare l’efficienza e a ridurre il confronto dialettico, comprimendo ulteriormente la partecipazione collegiale; realizza nuove gerarchizzazioni legate alla nascita di team o referenti di progetto.

Il Piano “Scuola 4.0” è il più ingente finanziamento mai ricevuto dalle scuole italiane (un totale di 2,1 miliardi di euro, centinaia di migliaia per ogni scuola), destinato esclusivamente alla creazione di “ambienti d’apprendimento innovativi” e “laboratori per le professioni digitali del futuro”. Si tratta del più grande “intervento trasformativo mai realizzato”: finanziamenti assegnati per decreto a cui non si può dire di no, un’innovazione che stavolta non può proprio essere evitata.

L’innovazione tecnologica diventa un pretesto per perseguire altri scopi: vincolare gli insegnanti alla cosiddetta didattica per competenze; incidere sull’organizzazione e gestione interna degli istituti, distinguendo i lavoratori secondo criteri di affidabilità e di fedeltà al nuovo sistema; connettere ancora più strettamente la scuola agli imperativi economici e alle esigenze dell’odierno mercato del lavoro, consentendo agli attori imprenditoriali di gestire in primis aspetti centrali della vita scolastica attraverso ingenti finanziamenti pubblici.

Il Piano si propone di insegnare ex novo ai docenti come esercitare la propria professione, dal momento che il loro bagaglio professionale non risulterebbe più adatto ai nuovi ambienti di apprendimento: la formazione obbligatoria troverebbe così, sulla base di questa relazione, un fondamento definitivo e non contestabile.

Da notare che in tutto il Piano “Scuola 4.0” si fa costantemente riferimento ad autorità e studi senza mai specificare un nome o una precisa teoria verso la quale si sarebbe constatato un assenso scientifico diffuso.

Non manca poi un invito ai Dirigenti a condizionare il “loro” corpo docente, in modo che si adegui a queste direttive, anche attraverso la formazione di un gruppo di insegnanti di più alto livello gerarchico, una “leadership educativa” automaticamente selezionata tra coloro che accettano di partecipare con convinzione all’imminente trasformazione della scuola digitale. A questa nuova organizzazione si lega un modello di “progressione di carriera”: la transizione digitale del docente/formatore si snoda lungo una dettagliatissima classificazione delle diverse fasi dello “sviluppo della propria competenza” che lo porta da Novizio (A1) a Pioniere (C2), una “rarità preziosa” per ciascuna scuola.

Il PNRR è “un programma di performance” con traguardi quantitativi; le attività svolte dalle scuole non sono libere, ma “funzionalmente vincolate al raggiungimento di questi traguardi” e strutturate secondo precise istruzioni. Se gli obiettivi non vengono raggiunti si comincia a parlare di commissariamento: qualora si compromettessero i target europei, l’unità di missione del PNRR attuerebbe la procedura dei loro poteri sostitutivi.

Le connessioni con altre azioni del PNRR sono ad esempio la riforma dell’orientamento, che prevede per gli studenti l’introduzione di un portfolio digitale (Eportfolio), nel quale saranno inseriti i badge elettronici generati dalle certificazioni dell’Invalsi in base ai risultati individuali nei test standardizzati.

Evidentemente siamo di fronte ad un processo profondamente politico imperniato su una tecnocrazia educativa, la delega delle scelte politiche a soggetti tecnici non controllabili; una standardizzazione valutativa, una tracciabilità individuale, l’esternalizzazione delle credenziali educative pubbliche. Ciò determinerà, oltre all’omologazione e alla scomparsa delle capacità critiche, l’eliminazione di contenuti culturali e la svendita dello spazio scolastico al mercato delle tecnologie educative.

A completare il quadro ci sarà l’autonomia differenziata, che accorcerà la catena di comando e subordinerà ulteriormente gli insegnanti al potere politico dell’assessore di turno.

Cosa fare?

La rivoluzione che abbiamo davanti può vederci spettatori passivi o attori protagonisti (nella maggioranza dei casi saremo l’uno e l’altro insieme) e per questo è importante riannodare i fili di una riflessione comune.

È prioritario superare la acriticità con cui nelle scuole, tranne poche eccezioni, è stata affrontata l’introduzione della tecnologia informatica nonostante anche dal mondo accademico, scientifico e culturale la riflessione sull’argomento sia ricca di questioni aperte. Contestualmente dobbiamo recuperare la dimensione politica propria dell’agire educativo: formare menti critiche e in grado di “scegliere”. È solo attraverso la dimensione politica dell’educazione che il lavoro del docente avrà ancora un significato.

Iniziare quindi con un’operazione eminentemente culturale: ripulire il lessico della politica e riconoscere quanto sia rovesciata la lingua con cui ci parlano l’informazione, la normativa e i documenti ufficiali; il non-linguaggio, infatti, alla fine diviene non-pensiero e forse è proprio questo il terreno adatto per gli scopi della scuola 4.0.

Attraverso il dibattito collettivo dovremmo analizzare correttamente e in maniera approfondita gli avvenimenti e le politiche, dandoci gli strumenti per interpretare correttamente i processi in atto, legando sempre il problema educativo a quello sociale ed economico.

È urgente creare una rete tra singoli o gruppi di docenti e lavoratori della scuola per affrontare collettivamente le problematiche interne alle singole scuole e trovare forme di scambio delle esperienze a livello di resistenza e di elaborazione di alternative controculturali su cui fondare la nostra attività didattica quotidiana.

Inoltre andrebbero immaginate possibili azioni di boicottaggio e inceppamento dei meccanismi del potere, da mettere in campo a fianco degli scioperi e delle battaglie negli organi collegiali.

Mauro Giordani fa parte di NiNanDa e Alas

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