PAOLA CAPRIOLO Il dio narrante

Da «Italiana. Antologia dei nuovi narratori»

Innanzitutto dovrei decidere chi sono. Forse il cadavere del lord disteso sul pavimento della biblioteca con una pallottola in corpo, proprio all’altezza del cuore. Ben si comprende però come da un tale punto di vista, a meno di non ricorrere a ipotesi indimostrabili circa la sopravvivenza dell’anima, mi rimarrebbe assai poco da raccontare. Potrei essere invece l’assassino che a cauti passi abbandona non visto la scena del delitto, ma in questo caso, è evidente, incorrerei nell’inconveniente opposto e avrei non già poco, ma troppo da dire, e troppo presto.

Chi, allora? Il tenace investigatore che va pian piano dipanando la matassa intricata, l’uno o l’altro dei testimoni di volta in volta sospettati e prosciolti? Oppure un dio che guarda dall’alto, e tutto vede, tutto conosce, dispiegando il suo illimitato sapere in una rivelazione graduale e dilazionata nel tempo? O forse un dio dallo sguardo appannato, cui le vicende delle proprie creature si mostrano solo da lontano e in maniera confusa, un dio che spesso non sa, ma tenta di indovinare cosa si nasconda nei cuori e nelle reni, affamato di eventi, sitibondo di verità, reso astuto e curioso dalla sua stessa impotenza.

Ma perché gli occhi dalla vista imperfetta dovrebbero ora capitare proprio nella biblioteca, posarsi sul corpo inanimato del nobiluomo, compiacersi morbosamente di osservare la ferita mortale inferta dal proiettile o meglio ancora dall’antico tagliacarte, il cui manico d’avorio intarsiato si leva dritto e terribile sul petto della vittima? Perché tutto questo e non invece, poniamo, una dama e un cavaliere che giocano a scacchi nella sala di un turrito castello, e dalla finestra a sesto acuto giunge il richiamo di un mare freddo e grigio solcato da rare navi avventurose? I palafreni scalpitano e nitriscono nelle scuderie dove l’ombra li sottrae quasi del tutto allo sguardo del dio. Servi e vassalli corrono solerti qua e là, non si sa bene cosa facciano: le solite cose, si suppone, che convengono appunto al loro stato di servi e di vassalli. Circa le ancelle vien voglia di essere più precisi e di stabilire in primo luogo che sono tutte bellissime, fanciulle di nobile sangue ridotte in schiavitù dalle alterne fortune di qualche guerra; in secondo luogo che si dedicano presentemente ad accudire alla gentile figura della padrona (una principessa, va da sé), pettinandole i lunghi capelli biondi, cospargendone il corpo candido di unguenti preziosi e di essenze che giungono dall’oriente.

Ma il dio è troppo curioso, troppo impaziente, e confonde spesso il prima con il poi. Il tempo giace dinanzi a lui come uno spazio immobile, fatto d’ombre e di luci eppure tutto presente, e solo con grande sforzo può immedesimarsi nella bizzarra prospettiva da cui i mortali contemplano questa vasta distesa, scambiandola, chissà perché, per un fluire continuo, un trapassare incessante da un nulla all’altro. Considerando le cose in tal modo, secondo il prima e il poi, è evidente che l’intima cerimonia celebrata dalle ancelle intorno al corpo denudato della loro signora non può svolgersi in presenza del cavaliere, e che di conseguenza la partita a scacchi deve essere già finita, oppure non è ancora incominciata. Il dio se ne è quasi scordato, della partita a scacchi, e del mare grigio che mormora in lontananza, per non parlare del povero lord che continua a giacere sul pavimento in attesa di una postuma vendetta. La vendetta può aspettare, il mare seguiti pure nel suo mormorio lontano e inascoltato: tutta l’attenzione del dio è lascivamente concentrata sul rito della vestizione della dama, o della sua svestizione, lui non può saperlo, perché ha dimenticato il prima e ha dimenticato il poi. Vede solo, come fosse l’eternità, l’istante in cui il giovane corpo si leva nudo fra quelli vestiti delle ancelle. E trattiene questo istante, lo dilata, si compiace di fissarne nella propria mente divina ogni minimo particolare. Vi si sofferma con una tale ostinazione da far temere che il corso del mondo si arresti per sempre obbedendo al suo capriccio. Poiché come è noto, sebbene il capriccio sia per definizione qualcosa di labile e fugace, il capriccio di un dio può mantenere questo carattere effimero e ciononostante durare in eterno. Forse lui non sa nulla della nostra eternità, inglobata nella sua come una goccia d’acqua nella distesa fredda e grigia di quel mare che già abbiamo menzionato, e che intanto seguita imperterrito a mormorare.

Ma cosa c’entra il lord con la principessa, la scena del delitto con il turrito castello sede di tornei e di amorose tenzoni? Niente, risponderebbe il dio, che come tutti gli dèi è un pessimo narratore. O indicherebbe un legame tale soltanto per lui, e preciserebbe inoltre che questo intimo nesso si estende altresì a un certo elefante bianco dell’esercito di Annibale, a un’isola corallina le cui spiagge dalla sabbia rosata sono percorse talvolta dai piedi nudi di feroci cannibali, o al celebre teatro lirico di una città europea dove in questo preciso istante, mentre la principessa si veste o si sveste, sta per debuttare un’opera destinata a fama imperitura.

È tentato di lasciar perdere per un poco la bianca fanciulla e di soffermarsi a descrivere l’aspetto dei cannibali, invero assai pittoresco, con la pelle tatuata e gli alti copricapi di piume, e intanto pensa con vaga tristezza alle legioni che da un paese lontano verranno, o sono venute, a ridurre in schiavitù quegli orgogliosi selvaggi, e pensa al grande compositore il quale nello stesso istante passeggia fra vette alpine cercando di immaginare il debutto della sua opera, cui non può assistere per motivi che il dio, così su due piedi, non è in grado di ricordare. Seppure non dotata di onniscienza, la sua mente divina è infatti capace di coltivare contemporaneamente due pensieri diversi, e volendo anche di più: non sarebbe dunque illegittimo supporre che almeno un cantuccio sia rimasto libero per continuare ad accogliere l’immagine della solita principessa. Il lord invece non lo interessa proprio, se ne riparlerà eventualmente quando le indagini sulla sua morte giungeranno all’imprevedibile svolta conclusiva, dal dio già prevista e dimenticata. In fondo egli non fa che leggere e rileggere gli stessi libri, oppure li sfoglia svogliato, invertendo talora l’ordine delle pagine. Solo le provvidenziali lacune della memoria, la miopia dello sguardo, lo salvano dal precipitare nello sconfinato abisso della noia, e quando gli capita di sentire qualche teologo che disserta sulla sua infinita sapienza e preveggenza si affretta a compiere allarmato ogni possibile scongiuro.

Contempla le proprie creature, ibridi frutti del tedio e della distrazione, e a volte, se gli attori sono dotati di un talento particolare, si lascia persino avvincere dallo spettacolo risaputo dei loro destini. Così questo corpo nudo, chissà perché, doveva essere sfuggito alla sua attenzione, e adesso gli ritorna come qualcosa di assai gradito, simile forse a quell’evento definito dagli uomini una «sorpresa», e precluso agli esseri del suo rango. Gli dispiace soltanto che nel novero delle cose che furono e che saranno non sia registrata, a quanto gli risulta, alcuna sua avventura con la principessa. Del resto lui non appartiene alla specie degli dèi che si immischiano di continuo nelle faccende del mondo: si limita a osservare, dall’alto, con sguardo offuscato. Non è quel che si dice un dio d’azione.

A volte chiude gli occhi per scoprire se in tal modo la realtà non cessi per caso di esistere, ma nella tenebra dell’assenza di visione continua a giungergli il brusio confuso e molteplice della vita, e li riapre deluso.

Gli è sempre piaciuto, questo nuovo preludio che risuona nella penombra del teatro. Spesso egli ferma il tempo e lascia che una brevissima serie di note si ripeta per un numero di volte che gli uomini direbbero infinito, come forse dicono infinito questo suo divagare senza meta, e si spazientiscono. Non sanno che un dio, sia pure non onnisciente, vede troppi fatti per poter raccontarne uno solo dal principio alla fine, ignora cosa siano fine e principio, li confonde l’una con l’altro, inverte a suo capriccio la successione degli eventi, l’ordine delle pagine, e la sua attenzione dilaga tutt’intorno disperdendosi nello sterminato brulicare degli avvenimenti secondari.

«Secondario» è una parola della quale non è mai riuscito a comprendere il senso. Ogni cosa appare ai suoi occhi talmente intrecciata con tutte le altre, che talora i confini si annullano nella visione di un unico essere gigantesco, fatto di parti che si amano, si combattono e spesso si ignorano a vicenda. Se tuttavia, conformandosi all’uso mortale, dovesse stabilire una gerarchia fra gli elementi dell’universo, metterebbe senza dubbio al primo posto una certa penna dell’ala sinistra dell’angelo che al mattino gli serve la colazione, una penna lunga, il cui colore non esiste in tutta la natura e spicca sul banalissimo candore del piumaggio. Seguirebbero, nell’ordine, l’opera destinata a fama imperitura, una polena di nave a forma di sirena che si trova in una grotta del Mare del Nord, gli occhi celesti di un giovane pastore figlio dell’appassionato connubio9 di un uomo con una dea, e infine naturalmente, o forse per prima cosa, la vestizione della principessa nella sala del turrito castello. Ma scelte del genere, egli ne è consapevole, non possono in alcun modo fornire la base per una coerente visione del mondo.

E così guarda a caso, qua e là, e quando racconta parla a vanvera, e confonde a tal punto il prima e il poi che tutto appare fermo, o stranamente attorcigliato su se stesso, o si muove di un movimento retrogrado come il passo de… gamberi. E di nuovo il dio si domanda che senso abbia questo suo confuso guardare, e di nuovo chiude gli occhi, e li riapre, e nulla è mutato.

Così talvolta, specie nelle mattine d’autunno, finge di non accorgersi dell’angelo dalla bella penna che gli si accosta discreto con il vassoio d’argento: si rincantuccia sotto il lenzuolo e torna a sprofondare in un sogno dove tutte le immagini giocano insieme, immemori del prima e del poi, e ogni cosa accade lieve e senza perché.

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