NICOLA GARDINI La lingua scritta di un’Italia ancora unita

da Studiare il latino fin dalle elementari, in «Micromega», 5, 2019, pp. 211-214

Il latino è una delle grandi lingue dell’antichità. Sa esprimere tanto i bisogni della comunicazione spicciola quanto le sottigliezze e le eleganze del pensiero, della ricerca intellettuale e della poesia. Per tempo dimostra una spiccata tendenza a tecnicizzare le faccende legali e agricole, creando gerghi specialistici e lessici settoriali. Quando parliamo di latino, parliamo di una doppia dimensione: parlato e scritto. A noi, oggi, il latino interessa come lingua scritta: lingua letteraria, lingua di cultura. Tale distinzione non va dimenticata. Chi non l’ha chiara in mente può arrivare a confusioni gravi, come pretendere che il latino faccia quello che ci si aspetta dall’inglese o da una qualunque altra lingua di uso corrente. Il latino, semplicemente, fa altro, fa quello che fanno le scritture: ragiona e rappresenta.

Quello parlato è tutt’altro che ininteressante. Ma dov’è? È mutato nel corso dei secoli, dando luogo a un gran numero di altri idiomi, le cosiddette lingue romanze, compresi il nostro italiano e molti dialetti dell’italiano. Quello scritto, invece, si è perpetuato in forme regolari, prescritte da una certa normativa, opponendosi alla corrente del tempo trasformatore; si è dato una grammatica. Per questo, tra la lingua scritta di Cicerone e quella di uno scrittore di molto successivo le differenze non sono sostanziali: la grammatica è rimasta quella.

Il latino scritto prese a svilupparsi fin dall’VIII secolo avanti Cristo e raggiunse piena maturità espressiva tra il III e il I secolo avanti Cristo. Produsse una vasta letteratura (che includeva qualunque campo del sapere), coprì il mondo di epigrafi, codificò il diritto, elaborò i testi e i discorsi della religione cristiana. Tanta produzione è arrivata fino a noi, di copia in copia, in una staffetta plurisecolare, costruendo via via una coscienza e uno spirito europei. Molto, naturalmente, si è perso nel corso dei secoli, talvolta in modo definitivo, per le guerre, le censure religiose, l’indifferenza delle persone.

Alcuni testi, però, sono ricomparsi all’improvviso, perché non erano andati distrutti e occorreva solo che qualcuno si mettesse a cercare nel posto giusto (le biblioteche dei monasteri). Celebri le riscoperte di Lucrezio, di Quintiliano, di Catullo, delle lettere di Cicerone. La storia del latino, dunque, non è soltanto la storia delle opere e degli autori che scrissero in latino ma è anche la storia della loro trasmissione; la loro fortuna millenaria; la loro influenza. Virgilio, oltre a essere lo scrittore dell’Eneide, è gli scrittori che lo hanno letto e preso a modello, fin dalla stessa antichità. L’influenza — o tradizione — è un concetto di primaria importanza. Mai perderlo di vista, quando si studia il latino (ma non solo quello). È una sorta di magnetizzazione. Mi viene in mente un celebre passo di Platone, che dice che la calamita trasferisce le sue proprietà al pezzo di ferro attirato e questo a un altro e così via, creando una catena. Il nostro Poliziano usò quest’immagine per descrivere gli effetti della lettura, ovvero il funzionamento della tradizione.

L’umanesimo dei secoli XIV e XV, che riportò alla luce molti testi, è parte fondamentale della vita del latino, e lo sono anche un Dante, che con la Divina Commedia lancia un ponte verso l’antichità, ricongiungendosi direttamente a Virgilio (e ad altri, come mostra il canto del limbo), o un Ariosto e uno Shakespeare con il loro culto di Ovidio. Tuttora, in effetti, gli scrittori delle più varie lingue dialogano con gli scrittori latini e tuttora possiamo aspettarci che qualche riscoperta avvenga. Quel dialogo non ha mai conosciuto soste. La storia del latino coincide con tutta la storia d’Europa. E quella storia sta andando avanti: attraverso gli studi, le traduzioni, un’incessante opera di variazione, conscia e inconscia. «Tutto mi trasferisco in loro», scrisse Machiavelli in una famosa lettera della fine del 1513, raccontando la sua frequentazione degli antichi. Interessante è che poco dopo annunciava di aver compiuto una nuova opera, Il Principe. L’affetto per il latino e l’invenzione della moderna scienza politica si ritrovarono espresse nel piccolo spazio della medesima missiva.

Esiste poi tutta una letteratura latina moderna, cioè successiva alla caduta dell’impero romano, in Italia e fuori d’Italia. Il Medioevo e il Rinascimento, almeno fino a un certo punto, sono culture prevalentemente di lingua latina. Il già ricordato Dante scrive la Divina Commedia e si batte per il trionfo del volgare. Ma ha anche una sua produzione latina tutt’altro che irrilevante. Ancor di più questo bilinguismo si constata nell’opera di Petrarca, che è per lo più latino, e in Boccaccio, che in Europa riscuote grandissimo successo con i suoi trattati latini. Il Quattrocento italiano è soprattutto latino, e in latino lascia capolavori. Nel Cinquecento il volgare riprende il sopravvento, ma il latino continua a vivere e procreare: basti citare quel capolavoro che è la Syphilis di Fracastoro, poemetto didascalico sull’origine della sifilide. L’Elogio della follia di Erasmo e l’Utopia di Thomas More, manifesti di modernità, sono scritti in latino. Montaigne scrive in francese ma pensa in latino, e di citazioni latine riempie i suoi Saggi. Perfino un campione del volgare come Ariosto inizia come poeta in latino. E, seppure più non scriva in latino, di latino si nutre un maestro della modernità come Leopardi. Manzoni, dando agli italiani il loro primo romanzo, scomoda non poche volte Virgilio e perfino Apuleio. Al latino guarda ininterrottamente, in pieno Novecento, un poeta innovatore e stravagante come Andrea Zanzotto. Di latino si nutrono praticamente tutti, scrivendoci, leggendolo, traducendolo. Lo stesso Marinetti, iconoclasta quanto si voglia, a un certo punto si mette a tradurre la Germania di Tacito.

Questi esempi rivelano un fatto di grande importanza: che in Italia, diversamente che in altri paesi, il latino ha per lungo tempo risposto a un bisogno di unità nazionale. È stato la lingua scritta di un’Italia che non solo non era unita geopoliticamente, ma neppure linguisticamente. Nel latino la letteratura italiana ha trovato un fondamentale mezzo espressivo, prima che il volgare fosse promosso a lingua letteraria comune.

E alla grande letteratura in lingua latina che arriva fino alla modernità bisogna senza esitazione aggiungere la vasta produzione degli scienziati e dei politici. Il latino scritto, infatti, serve per la più facile circolazione internazionale di scoperte e di idee. Il latino scritto è una scienza, non meno della matematica o della biologia. Per questo va studiato. Come ogni scienza, ha un suo sistema simbolico, una sua storia, una sua tradizione. E una forma di conoscenza: studia i comportamenti dell’essere umano, come individuo sociale, li rappresenta, e indica problemi e soluzioni. Quando dico «comportamenti», «problemi» e «soluzioni» intendo qualunque comportamento, qualunque problema, qualunque soluzione: dalle relazioni private a quelle pubbliche, dall’osservazione dell’universo alla ricerca della felicità, includendo lo studio di realtà sommerse e nascoste, come la struttura della materia, il destino del mondo, la sostanza del divino.

Il latino è scienza dell’uomo e, come tale, ha formato nei secoli scritture, immagini di società, modelli di comportamento, diramandosi in altri discorsi. Il discredito cui lo studio del latino è costretto in questi tempi riflette un’idea banalmente utilitaristica di lingua (discredito che non riguarda solo il latino, ma qualunque formazione che non abbia un’applicabilità immediata): lingua come strumento, lingua come cosa di tutti, lingua che c’è sempre e comunque… Non è così. La lingua è un fine, perché è ricerca: ricerca del senso e dei modi in cui esprimere il senso e costruire un mondo comune. La lingua è solo di chi la costruisce. Parlare non basta. Bisogna pensare. Il latino scritto è costruzione e pensiero.