[da Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, nella traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 1989, pp. 22-23]
La statura di lui supera quella di chiunque a corte quasi dl un’unghia, e questo solo basta ad ispirare reverenza in chi lo guarda; ha fattezze marcate e virili, labbro austriaco, naso aquilino, colorito olivastro, un’espressione intrepida, corpo ben proporzionato, movenze aggraziate, e portamento maestoso. Aveva ormai superato la prima giovinezza, poiché aveva già ventotto anni, e regnava da sette, tra i successi militari e la generale prosperità. Mi distesi sul fianco, in modo da tenere il viso all’altezza del suo, per guardarlo più comodamente, mentre stava in piedi, alla distanza di tre metri. Ma, in seguito, l’ho preso in mano più volte, e perciò posso esser certo che la mia descrizione è esatta. Portava un costume molto semplice e disadorno, tra l’europeo e l’asiatico, e sul capo un elmetto d’oro scintillante di pietre preziose, con un pennacchio in cima. Per difendersi, nel caso mi riuscisse di sciogliermi, teneva sguainata la spada, lunga otto centimetri, con l’impugnatura e il fodero d’oro, tempestati di diamanti. Aveva una vocina acuta, ma chiara, tanto che potevo udirlo distintamente anche in piedi; le dame e i cortigiani indossavano costumi splendidi, sì che tutti insieme davano l’impressione di una gonna distesa al suolo, ricamata a figurine d’oro e d’argento.
Sua Maestà Imperiale mi parlò più volte ed io risposi, ma non ci capivamo nulla, e allora ordinò ad alcuni dei presenti, che dagli abiti mi sembravano sacerdoti o uomini di legge, di rivolgermi la parola, ed io mi provai con loro nelle diverse lingue delle quali ho almeno un’infarinatura, alto e basso olandese, latino, francese, spagnuolo, italiano e lingua franca, ma tutto fu inutile.
Un paio d’ore dopo, la corte si ritirò: mi fu lasciato un corpo di guardia armato, per impedire l’impertinenza nonché la malizia della plebe, che si affollava impaziente intorno a me. Alcuni ebbero l’impudenza di scoccarmi i loro dardi addosso, mentre me ne stavo seduto in terra, vicino alla porta di casa mia, e una freccia mi sfiorò assai da vicino l’occhio sinistro. Allora il colonnello fece arrestare sei dei caporioni e non seppe immaginare punizione peggiore per loro che di consegnarmeli legati; alcuni soldati eseguirono l’ordine cacciandoseli avanti con la punta delle picche fino a portata delle mie mani. Li presi tutti nella mano destra, ne misi cinque nella tasca della giacca e quanto al sesto feci l’atto di volermelo mangiare vivo. Il disgraziato urlava come un pazzo e il colonnello e gli ufficiali stavano sulle spine, specialmente quando mi videro tirar fuori il temperino; ma presto li liberai da ogni paura: guardandolo con dolcezza, tagliai le corde di quel disgraziato e lo posai pian piano a terra, dove se la dette a gambe. Feci lo stesso trattamento agli altri, togliendoli di tasca uno per volta; e mi accorsi che soldati e popolo si rallegravano molto di questa prova di clemenza che venne riportata a corte e mi mise in una luce assai favorevole.
Verso sera, mi ritirai in casa non senza qualche fatica, e mi distesi sulla nuda terra, e cosi feci per una quindicina di giorni; fino a che l’imperatore non dette ordine che mi si allestisse un letto. Furono trasportati su carri seicento letti comuni, che vennero montati nella mia casa: centocinquanta, cuciti insieme, formarono l’estensione, e i restanti furono messi in quattro strati l’uno sull’altro; però non trovai in questo letto gran differenza dal pavimento che era di pietra levigata. Mi fornirono pure, misurando con gli stessi criteri, lenzuola, federe e coperte, cosa molto piacevole me che da tanto tempo m’ero assuefatto alle privazioni.