[La scuola e noi, 31 ottobre-21 novembre 2022]
Pars destruens
1- Il nuovo governo si è formato da pochissimi giorni, mentre scrivo, e già si levano – per fortuna, aggiungo, e con mia sorpresa – voci molteplici di dissenso, allarme e perplessità su uno degli aspetti della sua composizione e dei suoi connotati e indirizzi meno appariscenti e aperti al proscenio mediatico: il sostantivo Merito aggiunto alla denominazione del ministero dell’Istruzione, ovviamente non più Pubblica: ma questo è ormai da tempo consolidato e non ci si fa più caso. Il fatto che a reggerlo sia un personaggio ben noto e connotato a destra, il senatore e professore Valditara, è del tutto legittimo, visto l’esito delle elezioni, ma ciò non toglie che l’accoppiata Merito-Valditara susciti sinistre sensazioni in chi si è fatto da tempo un’idea del primo e del secondo. Di quest’ultimo dirò solo (e poi tacerò) che il suo nome è legato indissolubilmente alla Legge Gelmini (ne è stato a suo tempo relatore e forse estensore), e che questa legge di riordino dell’Università è stata, a mio avviso, il primo episodio compiuto del processo di autonomia differenziata, devastante provvedimento realizzabile anche grazie alla dissennata modifica del titolo V della Costituzione, votata – va ricordato – dal centrosinistra. Quella legge, operando secondo astuti parametri “meritocratici”, riferiti alle istituzioni universitarie, ha di fatto pian piano definanziato e quindi ridotto il personale docente nell’insieme del sistema pubblico, a vantaggio di quello privato (pare che ci siano in Italia ben undici università telematiche; e molti posti-chiave nelle istituzioni e nella società sono detenuti da esponenti della Bocconi o della Luiss); e soprattutto ha penalizzato le università periferiche e meridionali provocandone la progressiva moria per inedia o semplicemente per decadimento di qualità e organizzazione. Certo queste ultime università, nelle quali peraltro non mancano le decantate “eccellenze”, sono meno “attrattive” di quelle del ricco Nord: volete voi che gli studenti di Milano o Bologna trovino meno possibilità d’impiego di quelli di Catanzaro o Catania? O che i primi Atenei trovino meno finanziatori pubblici e privati dei secondi? Così, «a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Matteo 25, 29). Ma i nostri cristianissimi governanti non conoscono certo il Vangelo, e se lo conoscono non lo capiscono, se lo capiscono (ma quando mai!) si guardano bene dal praticarlo. Quanto sopra, giusto per intenderci sulle tendenze di lungo periodo che portano poi alla santificazione del Merito.
2 – Ma basta con Valditara & Co. Andiamo al sodo, ossia proprio al Merito. Cerchiamo di analizzare e denudare questo sostantivo così sorprendentemente e improvvidamente aggiunto a una vecchia titolazione del ministero di Viale Trastevere 70. Cominciamo, 1) dal non detto del Merito, dal suo valore quasi sempre antifrastico: siamo in Italia, si sa, e il familismo, non saprei se amorale, vige indisturbato: il Merito in questo caso è certo l’appartenenza, la “comarca”, che vale per studenti, studiosi e istituzioni. Alcuni o molti “scandali” nei vari Atenei (su quest’argomento occorrerebbe parlare diffusamente e laicamente, e qui non è il luogo) sono stati il denotatore di una finta rivolta delle élite al potere, di sgangherate pubblicità “populiste” per la meritocrazia, di fatto per una modernizzazione conservatrice. Chi lavora nelle scuole potrebbe pensare che le questioni dell’Università non siano di interesse specifico e attuale, per loro, ma sarebbe un errore proprio per il ruolo di apripista che ha avuto la Legge Gelmini e i suoi corollari applicativi, coronamento di un lungo attacco baronale e confindustriale al sistema di formazione pubblica, che è stata lasciata così quasi senza difese ideali, sociali e culturali; il successivo attacco è stato alla scuola pubblica (e qui ci ha pensato soprattutto la “buona scuola” di Renzi), che ha creato certo dissensi e proteste ma anche, non va dimenticato, consenso fra le frazioni più ambiziose o semplicemente più stupide del gruppo sociale costituito dai e dalle docenti; certo questo secondo attacco è stato forse un po’ più difficile soprattutto a causa della maggiore materialità del rapporto formativo e alla maggiore sensibilità dei e delle docenti di questo settore della formazione, sensibilità dovuta a sua volta al più evidente processo di proletarizzazione che li ha investiti e al ruolo demiurgico e manageriale che hanno per contro assunto i “dirigenti”. Questo è dunque, ripeto, il primo e più basso livello del Merito: sei meritevole se sei un convitato d’angolo, o magari un servitore, alla mensa dei potenti: nel più puro stile clientelare d’Italia. Ma questo non si può dire, perché ancora per un po’ l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù.
3 – Mentre scrivo adocchio qualche giornale, ascolto per radio il dibattito sull’argomento, che cresce ora dopo ora. Sono indotto perciò a modificare in progress la scaletta del mio intervento, colpito dall’abbondanza delle proteste di insegnanti, pedagogisti non d’assalto, intellettuali-massa impegnati nel lavoro, proteste variamente motivate e diversamente radicali, alle quali fanno argine pronto e violento i giornalacci reazionari e un po’ più morbido quelli progressisti (i più pericolosi per il ruolo di paracolpi che assumono, come sempre, per il cerchiobottismo che ammala e ammalia raffinati giornalisti), oltre che i soliti uomini politici di destra riformatrice (!). Può darsi perciò che queste pagine giungano ad essere pubblicate fuori tempo massimo, ossia quando alcune delle posizioni che esprimo saranno senso comune, o superate dai fatti, o semplicemente cancellate dal naturale processo della damnatio memoriae. Perciò ho già abbreviato e rimaneggiato la parte precedente, e vado a segnalare i rischi concreti che la parola Merito vuol celare con la sua carica di eufemismo. Passo così al secondo punto possibile di applicazione: i giovani «capaci e meritevoli» di cui parla la Costituzione. Qui l’ipocrisia è superata, sdoganata, come si dice. Capace che diventa meritevole sarà lo studente o la studentessa modello, il Pierino o la Pierina che sgomita, che si adegua agli standard di pensiero e di rendimento (meglio performance), di comportamento dentro e fuori l’aula, spigliato/a e sicuro/a di sé, che ama il coding e sa confezionare buone ricerche sul baco da seta, segue corsi di danza o di karate, si adegua ai POF e si aggiorna nei PON (piani nazionali che puntano su competenze e ambienti di apprendimento), con mammine e babbini al fianco, che fanno a loro volta comunella con analoghe figure di docenti ed entrano negli Organi delle scuole, incalzano i pargoli da casa perché non prendano il raffreddore, danno infine del “tu” – capita anche questo – ai o alle “dirigenti”. Nessun Gianni della Scuola di Barbiana, dunque, potrà ambire alla medaglia al Merito; e non parliamo poi dei molti Franti, a meno che non siano scapestrati rampolli della buona borghesia – cittadina o paesana, poco importa: questi ultimi rientrano di diritto nella categoria enucleata nel precedente capoverso. Di questo rischio parlano e scrivono i partecipanti al dibattito in corso in queste ore. Poco o nulla mi pare invece di aver sentito dei rischi che seguono.
4 – Passiamo dunque al terzo e quarto punto di assegnazione del Merito. Il terzo riguarderà, va da sé, le e i docenti: speculari ai pargoli e ai loro genitori, aggiorneranno costantemente i loro standard e criteri di insegnamento (ovviamente al ribasso, alla riduzione del senso critico), si preoccuperanno in primo luogo della salute fisica e psichica dei giovani loro affidati non perché abbiano difficoltà sociali o di adattamento, ma perché siano più sicuri e “performanti” e non abbiano a perdere qualche ascensore verso il Successo. Tali docenti iperresponsabili o sgomitanti avranno alcune occupazioni-preoccupazioni, e forse ad esse obbediranno con dedizione, come gli asini in processione di antica e perduta memoria, che si muovevano da soli, legati l’uno all’altro da una funicella, dal punto di carico al punto di smercio, guidati dal più anziano ed esperto di loro (in Sicilia li chiamavano «scecchi ‘i cunseguenza»): dunque essi dovranno opportunamente posizionare la loro classe nei riguardi di knowledge and understanding, con particolare attenzione ad adeguati livelli di applying knowledge and understanding, soprattutto; ricordare spesso ai loro discepoli quanto sia importante la loro capacità nell’arte del making judgements nonché delle communication skills; il tutto al fine, naturalmente, di soddisfacenti esiti terminali di learning skills.
A costoro, dopo che avranno giurato coi fatti Fedeltà al Sistema, sarà consegnata la bolla di Docente al Merito, e assegnato un aumento di retribuzione di cento euro annui (lordi), con in più il compito di vigilare guidare e stimolare la massa infingarda dei loro colleghi. Siamo onesti: a scorporare, con vari incentivi, con blandizie e ricatti morali, i docenti di serie A da quelli di serie B ci hanno pensato un po’ tutti i governi degli ultimi trenta o quarant’anni, perché l’ideologia dell’affidabilità e del rendimento (ci casco sempre: meglio dire performance) fa parte integrante del progetto di spaccare le classi e i gruppi sociali, e certo non solo nella scuola. E le sinistre politiche e sociali progressiste (il progressismo, consentitemi un passaggio personale, è la mia bestia nera: colpa di letture giovanili, ormai sono incartapecorito) sono state qui peggiori e più dannose delle destre becere; e, qui come altrove, le prime hanno spietrato, disboscato, arato, concimato il terreno (quello materiale e soprattutto quello ideale), che adesso è consegnato, ben pettinato e fertile, alle seconde.
Infine un quarto probabile punto archimedeo di attribuzione del Merito è infine quello nel quale si annida il maggior rischio: esso riguarda le istituzioni scolastiche in quanto tali, e qui il Merito fa da pendant all’autonomia differenziata (e questa è la ragione per cui, inizialmente, ho tanto insistito sulla Legge Gelmini e sul ruolo di apripista delle Università). Le scuole attrezzate e moderne del Nord e del Centro, ricche di personale docente e ATA, finanziate e ben programmate (magari da dirigenti meridionali in trasferta e ben limati dal progressismo meritocratico) saranno il nuovo Stupor Mundi, se ne parlerà nei servizi televisivi, avranno fondi per migliorare il loro standard, per realizzare e implementare (si dice così?) progetti di inclusione e integrazione (ma qui, ahimé!, bisognerà poi vedere come mettere assieme le popolazioni indigene e quelle immigrate, quelle indigenti e quelle abbienti, il bisogno nordico di popolazione di colore che lavori nelle fabbriche e l’odio per gli immigrati – a meno che non siano belli e bianchi – che sarà una costante del nuovo Governo. Per quanto riguarda gli schiavi dei campi, del Sud come del Nord, non c’è problema: dispersi come sono in luoghi difficilmente controllabili, possono anche morire per 20 euro al giorno, detratti i 15 per spese di alloggio). In questo si avvarranno dell’aiuto delle Istituzioni Locali, delle Fondazioni civili, delle Banche, insomma dei Privati Disinteressati e delle Aziende che le aiuteranno a plasmare e dolcemente indirizzare la già meglio formata e disciplinata manodopera; i programmi saranno definitivamente “adeguati al territorio” (il che significa che sarà definitivamente spezzata l’unità culturale della Nazione, per quanto questo termine sia oggi di moda in senso deteriore). In tal modo il sistema delle Scuole del Merito potrà finalmente e ufficialmente benedire le nozze fra costui, il Merito, e la Sussidiarietà che di strada ne ha fatta, dai convegni di Rimini fino alle aule del Parlamento e agli assessorati lombardi alla salute, fra Cadmo e Armonia, fra esseri umani e divini. Quando gli sposi saranno trasformati in serpenti, noi che scriviamo e leggiamo saremo tutti morti, secondo l’acuta osservazione di Lord Keynes sui processi di lungo periodo. Nel frattempo, se non saremo fra i pochi invitati al Convito (perché pochi saranno comunque gli eletti, anche nel ricco Nord), ci arrabatteremo con scuole cadenti, personale insufficiente, alunni vocianti, genitori disoccupati… e buche per le strade, immondizie, e ospedali sovraffollati e così via…
L’ho fatta un po’ lunga, ma ho ancora qualcosa da dire. Spero in un prossimo futuro.
Ancora sul (e contro) il Merito, l’Eccellenza, il Successo
Mentre riprendo i miei argomenti contro il Merito, continuo a seguire il dibattito, e vedo, non certo con stupore, compattarsi la cosiddetta pubblica opinione (ossia gli scritti dei maggiori opinionisti dei giornali più diffusi e potenti), e muoversi più o meno cautamente a protezione di questa vera e propria ideologia: rozzi bastonatori di destra, saccenti maestri del giusto pensare di orientamento liberista, pensosi ragionatori progressisti, eccoli lì a dire e scrivere, senza vergogna e con argomenti via via più sfumati, che sì, certo il Merito va maneggiato con cautela, ma che senza di esso non ci sarebbe l’ascensore sociale che consente al giovane di ceto sfavorito di raggiungere il successo; altrimenti andrebbero avanti solo i ricchi e i raccomandati. Non si capisce se costoro (soprattutto quelli della terza sezione) siano stupidi o in malafede: propendo per la seconda ipotesi, ma non escludo la prima. A parte l’ideologia dell’affermazione di sé, ovviamente individualistica, pare che non si capisca che il Merito non è quella cosa lì, quella chiave magica per l’ascensore, ma tutt’altra cosa: per dirla tutta in una volta un imbroglio e un avallo al darwinismo sociale. Un imbroglio per le ragioni che ho esposte nella prima parte di questo intervento; un’ideologia del darwinismo sociale per quel che segue, che però sarà esposto brevemente, almeno rispetto all’importanza della questione, e quasi per niente argomentato. Tanto, non ce n’è bisogno, e in parte ho già detto in precedenza.
Aggiungo solo che l’ideologia del Merito, ben prima di essere così brutalmente esposta dal nuovo Governo, al punto da esserne forse il segno culturale più evidente e pervasivo (assieme alla durezza repressiva prontamente tirata fuori subito dopo con il presunto contrasto ai rave parties), è stata ed è tuttora il risultato delle politiche liberiste da oltre trent’anni propagandate e propugnate soprattutto (ma non solo) nell’era Berlusconi, nella quale esse hanno esercitato una vera e propria egemonia dalla quale non sono state certo immuni i governi di centro-sinistra che si sono alternati nei vent’anni di quell’era. Ma il primo problema non sono i governi quanto la colonizzazione delle menti; fra martellamento mediatico e incoraggiamenti politico-ideologici si è finito col lodare la competitività, ossia la competizione fra individui e soprattutto fra istituzioni: che cosa sono, di fatto, le varie differenziazioni fra PTOF nelle scuole? Dove va a finire la sostanziale unità di indirizzo garantita dalla pur sgangherata Pubblica Istruzione? E non parliamo dell’autonomia differenziata, che è ben accetta anche a certi Governatori considerati di sinistra! Ognuno a finanziare le sue piccole patrie, ideologiche o territoriali; e, come si dice, “vinca il migliore”, ossia il più ricco e potente, il più fortunato socialmente o territorialmente. Il Merito è stato così il vessillo ideologico da issare in tutte le occasioni possibili, dalle Aziende alle pubbliche Istituzioni fino alle Scuole, trascinato dalla retorica dell’Eccellenza, dal pur giusto miscroscopio sulle varie Caste (e dalla speculare cecità sui veri poteri), dal linguaggio (chi si ricorda della diffusione della locuzione “Sistema-Paese”; o «capitale umano»?), dai segnali culturali («sei un perdente», sentiamo sempre nei filmetti seriali americani). Naturalmente il trionfo del vincente porta alla marginalità e al discredito del diverso, del debole, del perdente (che, in quanto tale, se l’è meritato): ossia di chi, diremmo oggi finalmente, non ha i requisiti del Merito. Insomma, il darwinismo sociale è frutto di una accorta “costruzione” ideologica. Quanto all’Eccellenza, essa, posta in auge dai presunti Eccellenti che hanno dalla loro i giornali e il potere, dovremmo riconoscerla come l’esatto opposto del vero merito, ossia di quel processo che fa crescere tutti insieme gruppi sociali e successive generazioni. Perché anche l’Eccellenza, se non è quella dei cosiddetti figli di papà, se si vuole che sia un traino per il Paese (perfino nella dizione aberrante di Sistema-Paese), cresce su una base di normale e sostanziosa qualità, di omogeneità e compartecipazione a linguaggi e fini sociali. Mentre i liberisti in cattedra, e quelli di complemento, spostano gli effetti della lotta fra capitali verso il basso, ossia nell’agone sociale che si accende fra ultimi e penultimi, o, peggio, fra diversamente ultimi.
Per tentare di andare in profondità, non dobbiamo poi rimuovere il fatto che da decenni ormai, il capitale finanziario punta alla «ciccia», ossia alle risorse che, in Italia come in Europa, riguardano lo Stato Sociale, con le privatizzazioni, gli accorpamenti di funzioni e anche, al contrario, lo scorporo di Enti (dall’IRI in giù); e soprattutto le pensioni: il patrimonio dell’INPS, che è quello derivante dal lavoro, fa venire l’acquolina in bocca ai grandi fondi internazionali, e non da oggi e nemmeno da ieri. Da qui una feroce lotta, anche ideologica e culturale, alla sfera del Pubblico: si demonizza prima e abbandona poi del tutto la cultura del Piano (statalista, addirittura comunista!), ossia di una valutazione di carenze e bisogni, riequilibrio e controlli, in favore delle competizione fra istituzioni da una parte, dei “progetti” dall’altra. Università, Regioni, Comuni, Ospedali e così via (anche privati) possono attingere a finanziamenti sulla base di questi ultimi. Per le Scuole questo ha significato il dilagare di PON e altri Progetti per lo più inutili e spesso dannosi e dispersivi, ossia di fonti di finanziamento che servivano e servono ad ingrassare (o anche solo a far sopravvivere) una variegata schiera di questuanti, quelli più grandi politicamente sostenuti, con l’effetto secondario di lasciar dichiarare ai vari Ministri della P.I. (o anche semplicemente I., non più Pubblica) che la spesa per la medesima era cresciuta! Quando tutti sanno che non è così, per i compiti di base. Naturalmente ci saranno utili eccezioni a questo quadro, ma esse rimangono una mera e ridotta componente statistica. Non parliamo poi delle esperienze scuola-lavoro. Perciò non meravigliamoci poi troppo, noi Infelici Molti (o forse Molto Pochi) se un governo che si dichiara di Destra, con una componente di Centro che ti raccomando, tira fuori il Merito: esso è frutto di un processo, parallelo a quello che porta nel primo Novecento dal liberalismo al fascismo, su cui hanno scritto in molti: da Polanyi a Marcuse, da Ernst Bloch al nostro Carlo Levi, giusto per elencare qualche nome a caso. E non dimentichiamoci nemmeno del rapporto di consulenza e sostegno che legava i Chicago Boys della scuola di Milton Friedman, di von Hayeck, di von Mises, insomma dell’ordoliberismo di ieri e di oggi, al generale Pinochet. Anche questa gente evocava, direttamente o indirettamente, il darwinismo sociale, il bellum omnium contra omnes elevato a principio di vita e legge naturale.
Pars construens: per la ripresa di un movimento democratico, cooperativo, gregario
1 – Una divaricazione da ricomporre
Mi è rimasto appena un riquadro per elaborare alcune idee su una possibile e necessaria costruzione/ricostruzione di un senso comune democratico, e dunque partecipativo e antigerarchico e – consentitemelo – antiliberista prima che antifascista, a partire dalle scuole. A questo scopo dobbiamo tuttavia non dimenticare che le idee, le leggi e i regolamenti, le pratiche autoritarie hanno sempre comportato il nascere, anche nella Scuola, accanto a movimenti di dissenso vasti ma di breve durata, anche il mantenersi di cospicue aree di indifferenza e di qualunquismo borbottante, e, infine, il costituirsi di un’ampia e aggressiva base di consenso, pagata (è il caso di dirlo), con incrementi stipendiali ma soprattutto con prestigio, acquisizione di status, e conseguente appagamento del Sé, in molti docenti, e non necessariamente dei peggiori: e neanche necessariamente “di destra”, anzi soprattutto “progressisti”. Anche chi non condivida il mio rancoroso linguaggio credo che non possa che confrontarsi con questo schema, e, a mio avviso, da questa realtà bisogna partire.
Credo che dobbiamo porre attenzione (perdonatemi l’intrusione in un contesto nel quale non ho lavorato direttamente, ma che credo di conoscere bene per varie ragioni) a un processo di divaricazione, nel pur vasto mondo del movimento e dell’impegno democratico nella scuola, fra due correnti principali di pensiero e iniziative: il primo dei due, radicato nelle lotte degli anni sessanta e settanta, ha privilegiato gli aspetti soprattutto sindacali, sociali e infine politici dell’assetto del sistema scolastico, dal reclutamento ai diritti dei lavoratori, dal finanziamento del sistema alle strutture scolastiche, dai diritti degli studenti agli organi di governo; il secondo ha via via concentrato l’attenzione soprattutto sugli aspetti che chiameremo “professionali” dei docenti, che non significa affatto che riguardassero corporativamente lo status dei medesimi, ma che accentuava l’attenzione verso il crescere delle competenze e delle tecniche didattiche, verso la responsabilizzazione istituzionale, verso la sudditanza infine (ahimè) ai desiderata dei vertici e delle basi petulanti (diciamola tutta: dei genitori, nella maniera in cui sono stati manovrati, negli anni, contro l’istituzione e secondo l’ideologia della sussidiarietà spacciata per cooperazione). Nulla vietava a un docente democratico, naturalmente, di essere contemporaneamente attivo sul piano sindacale e su quello professionale, ma di fatto la divaricazione c’è stata e ha creato un conflitto di fatto fra l’oggettività e la soggettività nella funzione della classe docente (ovviamente non mi riferisco alla vasta zona grigia, che è pur sempre maggioranza, e che può facilmente spostarsi da una parte all’altra). Superare questa divaricazione è, a mio modesto avviso, la precondizione per la ripresa di un consapevole, e non minoritario, movimento democratico nella scuola: perché la lotta per le strutture e per la dignità del personale, per il funzionamento ordinato dignitoso e cooperativo dell’Istituzione, per la difesa senza riserve del suo ruolo pubblico è oggi tutt’una cosa con la lotta per la didattica critica e inclusiva, per linguaggi non deteriorati e pasticciati, per l’organicità dei percorsi d’insegnamento e di apprendimento.
2 – Esempi a cui ispirarsi
Leggo che il 3 novembre, ossia non molti giorni fa, cadeva l’anniversario della nascita del noto maestro Alberto Manzi (1924). Conosciuto soprattutto come protagonista e ideatore della trasmissione televisiva «Non è mai troppo tardi», volta alla alfabetizzazione degli adulti, Manzi è stato molto di più. Incuriosito (sollecitato dal fatto di aver seguito, da ragazzo, molte di quelle lezioni) ho ricercato sulla Treccani online notizie del personaggio. Qui ho appreso fra l’altro che Manzi si era rifiutato per un paio d’anni di compilare le schede di valutazione dei suoi alunni (era infatti tornato a svolgere l’attività di maestro elementare), tanto che nel 1981 ebbe a subire dal Ministero la sospensione per due mesi dallo stipendio. Questo gesto antiburocratico è qualcosa di rivoluzionario, letto alla luce della realtà di oggi. E, ancora, cito dalla voce che ho sopra richiamato: «”Non è mio dovere – affermava nell’intervista al Corriere della Sera dopo i provvedimenti disciplinari a suo carico – parlare della vita del ragazzo, della sua partecipazione individuale alla vita della scuola […] non è mio dovere […] dare un giudizio relativo al comportamento psicologico dell’alunno”. Obbligato ad ottemperare alle richieste del ministero, Alberto Manzi oppose il suo laconico giudizio: in ogni caso, l’allievo fa quel che può e quel che non può non fa». Frase, quest’ultima, da praticare, con i dovuti aggiustamenti alle realtà di oggi.
Naturalmente è sempre attuale, nonostante qualche riserva sul linguaggio e sulle prospettive, il discorso contro il Merito (quello di classe, di censo e di appartenenza sociale) che leggiamo nelle pagine della Lettera a una professoressa di don Milani e della Scuola di Barbiana. E la pratica silenziosa di migliaia di docenti “normali”, che fanno il loro lavoro.
3 – Lotte, e criteri per agire
Non starò certo a sottovalutare quelle che, tradizionalmente, si chiamano lotte: lotte di resistenza, di boicottaggio, di denuncia, nei modi tradizionalmente intesi e praticati. Non ho dubbi che la cultura e la pratica del conflitto siano da riproporre. Ma qui trascuro le tradizionali forme di lotta per proporre in più qualche altro modello (spero di essere scusato per il tono vagamente pedagogico che, per brevità, assumo), nel quale tale cultura possa dal basso riproporsi, come costruzione di un senso comune.
Poche le parole chiave che propongo, in una formulazione sbrigativa. La prima è il no al progressismo: con tale termine intendo quel diffuso senso comune in virtù del quale si crede che una miscela che veda assieme la razionalità e il gradualismo, un diffuso senso di “civiltà”, ossia tolleranza, disponibilità al diverso, buon senso, fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, trasgressione, protezione dell’individuo, buoni sentimenti insomma, (quasi tutte “virtù”, ovviamente: ma in quale contesto e in quale direzione sono pensate?), insomma siffatto progressismo possa realmente risolvere i problemi del presente. Tale progressismo rinuncia appunto al conflitto ed è bacato da un legame umbilicale con il gradualismo, lo “sviluppo”, l’innovazione, le tecnologie, la “sostenibilità”, con la rinuncia all’autorevolezza e alle gerarchie culturali. Un’ideologia zuccherosa e trasgressiva a un tempo, che vorrebbe essere utopistica e invece risulta internamente contraddittoria e sostanzialmente continuista: sembra la copertura culturale della gigantesca riconversione produttiva e industriale in atto, nonché dell’intrusione sempre più massiccia del capitale nella vita quotidiana e nell’immaginario. La proposta di questo modello culturale è di fatto quello che la tecnocrazia elargisce a piene mani con la forza delle cose e delle strutture, oltre che del burocratismo; che, come spiegava Mark Fisher, non è affatto un incidente di percorso. No al progressismo è insomma uno slogan che potrebbe essere diversamente formulato da una seconda parola chiave: non collaborare. Parola un po’ anarchica, fuor di luogo se pronunciata da una persona piattamente «normale» come il sottoscritto, che significa, semplicemente, non accettare ruoli e attività di cogestione dell’esistente (ma so che su questo bisognerebbe aprire ampie riflessioni).
Le altre due parole chiave che propongo, a mio avviso pienamente applicabili alla situazione che si vive nelle classi, sono, legate assieme, lentezza e scarsità. Per quanto attiene alla prima, essa mi è stata suggerita – oltre che da personali riflessioni e forse dalla mia indole – da un discorso di Lidia Menapace ai popolo No-Tav nel 2012: «Mi è capitato spesso di difendere il movimento dagli “intellettuali di sinistra” che appena convintisi e convinti che il Tav è “moderno” e va più veloce e quindi è “progresso”, subito sposano la causa e si sorprendono delle mie posizioni. Ma io non considero “moderno” e “progressista” necessariamente cose giuste e – quanto alla velocità – sono per rallentare molti ritmi di vita, quasi tutti i ritmi di lavoro, certo i ritmi di apprendimento». Ho ben poco da aggiungere; se non che «lentezza» non vuol dire pigrizia, ma puntare su un percorso di esperienza, in cui si arriva tutti insieme, e tutti arricchiti. La «scarsità», a sua volta, cara a Franco Fortini, è quella appunto di tempo, di informazioni e formazione per i giovanissimi discenti, cosa che induce a rendere prezioso ogni momento di relazione didattica, ogni frammento di conoscenza, privilegiando quindi l’approfondimento, l’esperienza il dettaglio e perfino l’incompiutezza alla congerie di conoscenze e alla loro riduzione nel formato del test, del quiz, del compitino.
Infine desidero, soprattutto per gli insegnanti di letteratura, ma non solo, proporre l’idea di gregariato, che è una variante della cooperazione, ma che ha una connotazione diversa. Il gregario nei team ciclistici, il mediano nelle squadre di calcio, sono figure da sempre sottovalutate: ad essi non rifulge la luce della gloria, ma le squadre non possono sopravvivere, né vincere, senza di esse. I gregari sono appena un po’ meno bravi dei campioni, o forse sono ridotti dal caso a questa condizione. L’apprendimento e le relazioni gregarie, nella scuola, non alludono però al contributo subalterno, ma alla conoscenza e alla formazione collettiva, alla cooperazione e alla condivisione. L’educazione al gregariato, che si avvale anche di lentezza e scarsità, che vuol dire attendere chi è più indietro, crescere insieme, elaborare collettivamente, oltre che una pratica didattica utile ed efficace, mi sembra un essenziale passo per una pratica civile e sociale realmente condivisa e sostanzialmente democratica e, infine, umana.
Concludo, su segnalazione dell’amica Luisa Mirone, con una poesiola di Gianni Rodari, che faccio mia:
Filastrocca del gregario
corridore proletario,
che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,
e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria.
Al traguardo, quando arriva,
non ha applausi, non evviva.
Col salario che si piglia
fa campare la famiglia
e da vecchio poi acquista
un negozio da ciclista
o un baretto, anche più spesso,
con la macchina per l’espresso.