RENATA PULEO C’è chi merita e chi no

(Dicembre 2017)

Il 26 settembre scorso i giornali erano occupati in modo quasi equanime da commenti sul flop della proposta di legge sul diritto di cittadinanza e sullo “scandalo” della selezione universitaria. Nessun quotidiano collegava i due fatti, ma io tendo a vedere nella solerzia delle destre anti-cittadinanza, nonché della sinistra ipocritamente pro-cittadinanza, e gli arresti di illustri accademici, un nesso. Un nesso culturale, e dunque politico: viviamo in un paese di predicatori di onestà e di legalità che molto spesso incappano in comportamenti familistici, mafiosi. Traffici, di esseri umani e di capitale umano, non sono aspetti così distanti. Sempre qualcuno approfitta, fa profitto, genera redditi economici e rendite di fatto da situazioni di potere, da posizioni di disuguaglianza. Insomma, li potremmo definire episodi di costume, certamente non più solo italiani, ma ben incardinati nella più ampia cornice della governamentalità neoliberista (come nella lezione di Foucault). Una governance che si esprime attraverso il controllo di ogni quota di sfera pubblica, ben oltre e aldilà della possibilità per il cittadino e i suoi organi di rappresentanza di comprendere le dinamiche e indirizzarle. Ci troviamo di fronte ad una doppia morale: il rispetto della legge e dei valori vale per il migrante ma non per il cittadino italiano, nemmeno quando investito di carica pubblica.

Vengo all’università. Come suggerisce il commento di Corrado Zunino su «La Repubblica», la selezione universitaria voluta dai precedenti governi, e sancita dall’attuale, come sistema basato sulla meritocrazia contro gli abusi del soggettivismo valutativo, fallisce su due pilastri: l’ANVUR ( le sue classifiche farlocche per le pubblicazioni accademiche) e la Commissione dei 5 creata a sorteggio per valutare la ricerca e l’accesso alle cattedre. Nulla di nuovo. E’ dal 2004, ricorda Il Fatto Quotidiano, che si moltiplicano le denunce di corruzione in quasi tutte le Università dalle Alpi al profondo Sud. Una “cupola”, come molto efficacemente la definisce il professor Augusto Fantozzi, ex ministro negli anni ’90, docente di Diritto Tributario,  oggi nel novero non so se degli inquisiti o degli incriminati.  Più incline alla prudenza Luigi Nicolais, intervistato da Il Messaggero. Ex ministro anche lui (con Prodi, al dicastero delle riforme nella PA) ed ex presidente del CNR, ritiene possibile emendare il sistema senza criminalizzarlo, intravede errori ma non reati (ma questo spetterà alla Magistratura definirlo). Io credo  che, come abbiamo più volte sottolineato da queste pagine, il problema sia più profondo e che riguardi in generale cosa si intende per merito, valutazione e autonomia dei corpi pubblici come la scuola e l’università.

Sul concetto di merito, declinato per la scuola ma attinente anche a mentalità e procedure in ambito universitario, faccio un breve excursus, su cui per altro mi sono già dilungata in passato, sempre sul blog. Pur facendo capo a norme diverse lo scenario rimane il medesimo per tutto il sistema di istruzione, ad ogni livello. Il giro di boa mediante il quale si arriva all’attuale invasività del concetto mediante testi di legge e relativo battage mediatico, avviene durante il decennio ’90 del secolo scorso e non riguarda solo il “riordino”  dell’istruzione o del pubblico impiego, ma gli stessi concetti di pubblico e di statale. Si declina il concetto in chiave etico-morale e in chiave efficientista. Solo i meritevoli individuati attraverso sistemi di selezione oggettivi – indiscutibili – possono accedere a posti pubblici, esattamente come procedono le imprese private. Queste, secondo la vulgata, modello di efficacia e efficienza, lavorano all’assunzione dei propri dipendenti mediante criteri legati all’esclusivo interesse dell’azienda medesima, senza concessioni a patrocini e a raccomandazioni.

Ma se analizziamo il filone definito di “razionalizzazione” della Pubblica Amministrazione, dalle norme-Bassanini del 1997-‘99 (ben quattro riforme coordinate per la cosiddetta “semplificazione”) fino al testo di Brunetta e alle riforme di Luigi Berlinguer (dal 1996 al 2000 a guida del dicastero dell’istruzione nei governi Prodi e D’Alema), apripista per quelle dei dicasteri berlusconiani, il punto di snodo del cammino legislativo che riguarda la scuola e l’università, è l’introduzione dell’autonomia, intesa come libertà di azione volta a creare valore aggiunto. Si tratta di un’autentica deriva valoriale, politica, concettuale, che introduce un nuovo vocabolario nel mondo dell’educazione e dell’istruzione, meglio rispondente al profondo cambiamento economico-culturale frutto dell’avanzata neoliberista. Tutti si aspettavano grandiosi risultati per un processo chiamato innovazione, svecchiamento, de-burocratizzazione, nel completo oblio della storia delle istituzioni che poteva rendere chiare le conseguenze dei provvedimenti adottati. L’intento era di portare l’assetto delle strutture scolastiche, a tutti i livelli, ben dentro il quadro delineato dalla legge Brunetta, rendere operativi gli strumenti di “premialità”, di merito, di selezione e di valutazione, in simmetria con l’applicazione di misure di sanzionamento per l’inefficacia e l’inefficienza in ambito amministrativo e propriamente scolastico. La nuova disciplina era informata ai principi di ottimizzazione, efficacia di azione, efficienza per unità di spesa. Tutte performances che  prevedono costante monitoraggio, misurazione, valutazione; attività a cui doveva essere tenuto ogni ramo dell’amministrazione, sia in scala gerarchica, sia in autonomia per settore di appartenenza.  Si delineò così un intreccio fra il tratto discendente tipico di una “buona organizzazione del lavoro” e l’assunzione di responsabilità individuale per settore occupato. Il controllo delle performances si legò agli obiettivi dell’offerta, la valutazione venne affidata a organismi “indipendenti”,  l‘INVALSI per la scuola, l’ANVUR per l’Accademia. Nella legge a firma Brunetta c’era tutto quello che serviva per realizzare l’autonomia e l’aziendalizzazione della scuola. Il lavoro docente, se vogliamo parlare di scuola e di università  per il terzo millennio, doveva essere necessariamente “proceduralizzato”, regolato, certo non in nesso causale, ma “probabilistico”, la cui sensatezza razionale è fuori discussione.

Ecco allora comparire i termini del dibattito attuale sulla valutazione fra oggettività e soggettività. Il “mito” della contabilità che, nel caso dell’odierno scandalo universitario, si fa quasi comico, talmente inattuale rispetto alla pratica delle raccomandazione e del do ut des di marca italica che non varrebbe nemmeno la pensa occuparsene. Ma provo a prendere sul serio i termini del dibattito, con un distinguo di carattere teorico, anche se superato dal realismo del “non conta bravo o no, conta è mio o tuo” (sic, dalle intercettazioni).

Chiamiamo qualitativa la valutazione che ha nella sua trama discorsiva parole che dicono la cura dei particolari non generalizzabili, i fenomeni improbabili e inattesi nei comportamenti di insegnanti e discenti, la vasta gamma delle verifiche dei cambiamenti lette attraverso la pratica del colloquio, della critica tematica. La valutazione qualitativa opera grazie all’incrocio di più sguardi e di più riflessioni su di esse, elaborate da insegnanti e da discenti. Si muove su variazioni della figura-chiave, del parametro inizialmente scelto come base di partenza per definire il compito e valutarlo. La valutazione qualitativa poggia sul rifiuto di presunti universali, di prestazioni standard per mostrare saperi rispetto a determinate discipline, ponendosi però il problema – che va affrontato – dell’euristica che scaturisce dai loro incroci: cosa serve sapere di vocabolario specialistico, quali i giri discorsivi, le conoscenze disciplinari specifiche. Certo, pecca di soggettività, ma centra il contesto, lavora sulla connessione fra osservatore e osservato. Conosce la provvisorietà e la necessità di metter a fuoco più volte una prestazione, di sottoporla alla verifica di più osservatori.

La valutazione quantitativa è imbrigliata in un discorso scientifico, o sedicente tale, di oggettività e catturabilità dei fenomeni di cambiamento ridotti a bit osservabili, classificabili, messi in tabelle.

Ora, è appena evidente che mentre  si discute di merito, meritocrazia, di oggettività nelle scelte da parte di sedicenti commissioni neutrali, terze, ci troviamo di fronte ad un vecchio, ma non usurato, sistema di clientele. Clienti, affiliati, padrini che richiamandosi all’autonomia di giudizio nelle scelte e di gestione delle risorse, operano nella trama dell’assoluta discrezionalità. E allora, anche la distinzione operata più su perde dignità teorica. Non si tratta più di scegliere una modalità o l’altra, o di lavorare con entrambe, ma di saltare il problema di quanto vale una prestazione e il soggetto che la esplica. Il sistema, è stato detto dagli stessi protagonisti dello scandalo attuale, è basato sul baratto, sulla compravendita dei favori. Modalità che si adatta a qualsiasi opzione scelta, che si tratti di test o di colloqui.

Sull’autonomia mi limito a citare la Buona Scuola: l’autonomia (come si è detto parola-chiave per architettare tutto il processo trasformativo della scuola pubblica) prevede risorse, ma soprattutto nuove responsabilità nella scelta della “squadra”  che, in quanto tale, deve essere formata e guidata da un efficiente coach (allenatore, istruttore, mentore). “Le leve del governo” di un organismo di istruzione devono star fuori dalle spire di un’inutile burocrazia. Il nesso fra autonomia, offerta formativa, squadra-docente, si rafforza. E vale anche per l’università, con la ormai  nitida certezza su chi forma la quadra e come.

Per concludere. I 600 illustrissimi che sanzionarono il 4 febbraio scorso, con un commento tanto discusso quanto discutibile, la scuola di base perché non forma, non valuta oggettivamente, non prepara agli studi superiori, oggi non hanno proclami da firmare? Nessun commento moralistico sul merito, la valutazione e il sistema di selezione nelle accademie a cui molti dei firmatari appartengono?

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