[Il primo amore, 28 febbraio 2021]
Aria di neve. Poco meno di un anno fa la sensazione era proprio questa. La situazione era identica a quella che si crea alla vigilia di una giornata da allerta rossa. Cominciano a circolare sulle chat dei docenti le prime indiscrezioni sulla chiusura delle scuole l’indomani, seguiti da screenshot veri o fake. Di diverso, nel marzo dello scorso anno, c’era che la chiusura paventata da giorni aveva a che fare con qualcosa di più inafferrabile di una nevicata, come un virus fino ad allora sconosciuto. Non solo. Erano gli albori degli esperti da TV o social e si alternavano le opinioni più varie, da chi pensava fosse una semplice influenza, a chi di contro ne affermava la seria gravità, a chi scioglieva i dubbi in un aperitivo milanese. Poi la chiusura è arrivata.
La prima reazione del mondo della scuola è stata ovviamente il disorientamento. Si capiva che non era come con le scuole chiuse per il meteo, perché la durata non era prevedibile. Serviva allora cercare di stabilire un contatto con gli studenti. Ciò è stato facilitato dal registro elettronico e dalla maggiore familiarità, ormai diffusa, con forme di comunicazione meno strutturate tra docenti, studenti e famiglie. Arrivati alla prima domenica, si era già capito che bisognava dotarsi di strumenti strutturali, che avessero alla base internet. Per lo più il primo tentativo è stato fatto con i registri elettronici, per i quali ciascun istituto paga un canone annuo piuttosto salato, ma si è constatato da subito che le loro piattaforme erano ampiamente insufficienti. Si è allora iniziato a far ricorso ai colossi del web, da Google a Microsoft, e tutti noi abbiamo preso confidenza con le piattaforme di videochiamata. Ovviamente non tutti, tra noi e i ragazzi, hanno avuto una identica facilità nell’utilizzo dei nuovi mezzi, ma gli insegnanti hanno prontamente mostrato non solo la già ampiamente sperimentata capacità di adattamento, ma anche una certa duttilità nell’autoformazione. Il ricorso ai grandi gruppi privati ha creato perplessità e opposizione, perché si percepiva che, dietro all’offerta gratuita, era in gioco il patrimonio prezioso dei big data, con la possibilità istantanea di profilare milioni di persone. Ma il nostro Ministero, o il Paese più in generale, non era in grado di fornire alcuna alternativa. Prima criticità.
La seconda riguardava lo statuto giuridico di quel tipo di lavoro. Esso non era contemplato nei nostri contratti e il dibattito è stato su quale tipo di prestazione fosse obbligatoria per i docenti. Il vuoto normativo è stato riempito dalla generale buona volontà degli insegnanti, dall’organizzazione delle singole scuole a volte oltre il limite della legittimità, e, alla fine, dal legislatore. Il punto di arrivo è stato l’obbligatorietà della prestazione didattica, ma non la forma in cui essa veniva erogata. Abbiamo così imparato la differenza tra videolezione e attività asincrona e gli istituti si sono dotati di regolamenti e orari.
Alla criticità dell’inquadramento contrattuale, se ne è unita poi un’altra in maniera piuttosto rapida. Come l’intero Paese ha una struttura di rete arretrata e inadeguata, così l’accesso ad essa e la diffusione di dispositivi è molto varia, in dipendenza da condizioni geografiche, sociali, culturali. Abbiamo allora conosciuto il cosiddetto digital divide, cioè appunto il non uniforme livello di accesso ai servizi informatici, a cui si è cercato di porre rimedio: le scuole hanno fornito, quando ne avevano, dispositivi a studenti o docenti che ne facessero richiesta. Ma gli sforzi fatti non sono riusciti che in misura minima a limitare una discriminazione certificata a più livelli. La cosa più dolorosa è che, anche a fronte della disponibilità di connessione e dispositivi, le modalità a distanza si rivelavano del tutto inefficaci verso i ragazzi più fragili. Quelli che in classe andavi quasi fisicamente a cercare di tenere attaccati al discorso educativo, si eclissavano inesorabilmente dietro una videocamera spenta, un microfono non funzionante, un pigiama mai smesso.
Questo ha portato tutto il mondo della formazione a svolgere una riflessione seria che ha tolto il velo a una sorta di mito, un non luogo come l’ha definito un collega in questo stesso spazio: la scuola digitale. Tutti i docenti, non solo italiani, si sono trovati immersi nella didattica a distanza, la famigerata DaD, alla quale non eravamo stati formati se non per inclinazioni personali. Allora abbiamo iniziato a farlo: quasi in tutte le scuole si sono tenuti incontri sull’uso e le potenzialità delle piattaforme; abbiamo iniziato a esplorare youtube per i tutorial; ci siamo scambiati informazioni. Non solo. Vi è stato un proliferare di offerte formative gratuite a molti livelli: molte agenzie culturali di varia natura hanno iniziato a offrire percorsi online su contenuti disciplinari o nuove metodologie. In brevissimo tutti noi siamo divenuti erogatori e fruitori di attività didattiche a distanza, fino a una sorta di overdose. Il risultato è che abbiamo maturato, in maniera pressoché univoca, la consapevolezza che il mito del digitale è poco più di questo e che la DaD è una misura utile nelle emergenze come quella covid, o come integrazione, ma non può essere in alcun modo sostitutiva della didattica in presenza. È, rispetto a questa, meno efficace, più vincolata alla sola trasmissione dei saperi, più esposta al rapido esaurirsi delle capacità attentive. Per non parlare dei danni enormi che produce nei processi di socializzazione e crescita.
Un aspetto anch’esso critico legato alla DaD è stata la valutazione. Quando si è capito che l’anno sarebbe terminato in quel modo, ci si è posti per prima cosa il problema se valutare o meno. Molti docenti hanno ritenuto che le condizioni generali, con lo stress dovuto al covid e al lockdown, insieme ai limiti didattici prima descritti, dovessero far propendere per rinunciare a qualsiasi valutazione. Qui si è avuto uno dei tanti interventi tentennanti, e a più riprese contraddittori, del ministero e della sua titolare Azzolina. Alla fine, al di fuori di ogni seria considerazione didattica, ha prevalso il tentativo di far coincidere l’azione di governo con la raccolta di consenso. La parola d’ordine, fuori tempo massimo di almeno quarant’anni, è stata il no a un 6 politico che nessuno chiedeva. Ecco allora, per le superiori dove la questione è più complessa, l’inutile compromesso. Tutti gli studenti sarebbero stati ammessi all’anno successivo, ma un paio di buoni acronimi avrebbero salvato la faccia della valutazione. Si potevano assegnare dei PAI, cioè indicare che lo studente non aveva raggiunto gli obiettivi previsti; per i docenti c’è stato il PIA, certificazione di non aver svolto tutti gli argomenti programmati. Il dispositivo legislativo ci ha quindi imposto di valutare e ci si è chiesti come farlo e, a fronte di esperimenti seri ed equilibrati, per alcuni è iniziata la misera lotta per cercare di evitare che lo studente copiasse o si facesse aiutare. Tralascio gli eccessi pietosi a cui ciò ha condotto. Mi interessa invece che questa sia stata la prima occasione persa: una seria riflessione sul tema della valutazione nella scuola.
Krisis. Ve ne sono state, purtroppo, altre di occasioni perse. In pochi mesi nella scuola abbiamo maturato, o forse avuto il modo di esprimere in maniera più chiara, la consapevolezza che le fragilità del sistema messe in luce dalla pandemia erano solo la superficie di carenze strutturali che l’avevano impoverito in persone, strutture, formazione. Da cittadini lo vedevamo a un livello più ampio che investiva altri settori e il modello stesso di sviluppo capitalistico. Allora abbiamo iniziato a nutrire la speranza che quella in atto divenisse una krisis nel senso etimologico, vale a dire il momento di prendere decisioni analizzando una difficoltà. Sono iniziate, così, tra aprile e maggio, assemblee sindacali o autorganizzate e si sono formati vari coordinamenti; come insegnanti ci siamo confrontati spesso, ormai padroni delle piattaforme. Si è creata una convergenza larghissima su pochi punti, molto chiari: la didattica a distanza non può sostituire quella in presenza e rimane uno strumento emergenziale o di supporto; a settembre si sarebbero dovute creare le condizioni per ripartire in presenza con classi meno numerose e quindi nuove assunzioni e stabilizzazione dei precari, nuovi spazi, presidi sanitari nelle scuole. A ciò occorreva aggiungere politiche di finanziamento alla sanità e ai trasporti. Per sostenere tali piattaforme si sono organizzate anche varie iniziative. A Roma, come espressione dell’assemblea autoconvocata delle scuole, abbiamo promosso l’astensione dalla DaD il 3 Giugno. I sindacati confederali hanno indetto uno sciopero, purtroppo tardi, l’8 giugno, coprendo questo dato con l’affermazione che era uno sciopero politico. L’elemento forte nuovo, invece, è stato il movimento di Priorità alla scuola. Nato da una lettera inviata al Governo, raccogliendo nella prima fase soprattutto i genitori, esso ha avuto il merito innegabile di porre la scuola al centro del dibattito pubblico, con una capacità notevole di agire sui media. Il 23 maggio ha promosso un importante presidio di fronte al Ministero dell’Istruzione, in cui si è ribadita con forza la piattaforma di misure necessarie a ripartire a settembre in presenza. Non si trattava solo di rispondere alla pandemia, ma di impararne la lezione: un anno zero per la scuola che, svelata a tutto il paese la condizione reale in cui si trovava, sarebbe ripartita su basi radicalmente diverse e realmente in grado di promuovere la crescita di tutti gli studenti. Questa purtroppo è stata la seconda gravissima occasione persa.
I banchi con le rotelle. L’immaginario collettivo del mondo della formazione scolastica è stato popolato da elementi dalla forte valenza simbolica, che hanno a mio avviso funzionato purtroppo da distrattori. Quella più ovvia sono i monobanchi a rotelle, icona della spesa inutile. Altre immagini simbolo sono legate alla Ministra Azzolina, tra tutte quella dell’imbuto, da lei impiegata in una improbabile similitudine con gli studenti contenitori di una didattica solo nozionistica. Sostengo che si sia trattato di distrattori perché, nonostante la fondatezza delle critiche connesse alla diffusione di quelle immagini, queste corrono il rischio di far perdere di vista il cuore del problema. Quando siamo tornati a scuola a settembre, di tutto ciò che avevamo chiesto non si è visto nulla e, paradossalmente, vi sono stati peggioramenti rispetto agli anni scorsi. Le scuole hanno ricevuto fondi per ammodernare le infrastrutture informatiche, ma non è stato ridotto il numero di alunni per classe, e solo in maniera sporadica sono stati individuati nuovi spazi. Nel Lazio l’unico ciclo scolastico ad aver ricevuto incremento di insegnanti, comunque inadeguato, è stata la primaria: una unità ogni nove chieste dalle scuole. Le assunzioni previste non vi sono state, per un problema di nuovo legato essenzialmente al consenso politico: non vi erano le condizioni per far svolgere un concorso e il M5S, per una pretesa difesa del merito, ha rifiutato di immettere in ruolo in base all’anzianità di servizio. Il concorso straordinario, riservato a chi avesse già lavorato per almeno tre da precario, è iniziato a Ottobre, altra spia della irrazionalità totale che guida le politiche scolastiche, e infatti è stato interrotto subito. Fino a novembre decine di classi hanno avuto cattedre scoperte, un problema neanche lontanamente risolto dai cosiddetti contratti covid. L’unica differenza rispetto a giugno era la sigla di un accordo con i sindacati circa l’organizzazione della Didattica Digitale Integrata (DDI), il nuovo nome della DaD. Infine, noi insegnanti abbiamo potuto fare un test sierologico.
È chiaro cioè che il problema non erano gli imbuti o i banchi con le rotelle, ma il fatto che l’inversione di tendenza che avevamo richiesto non c’era stata. Perché? Per due ragioni, entrambe gravi, l’una contingente, l’altra strutturale. La prima è la colpevole illusione che la pandemia fosse passata. La seconda è che gli interventi che noi chiedevamo avrebbero in effetti determinato politiche a lungo termine di spesa pubblica, le quali evidentemente non si vogliono attuare: ciò non riguarda solo Azzolina o il governo appena cambiato, ma almeno venti anni di amministrazioni di ogni colore. Pertanto, quando a settembre siamo rientrati in classe, il quadro è stato disarmante. Nelle aule era evidente l’assenza di sicurezza: i responsabili nelle scuole avevano messo pallini per terra distanziati di un metro ciascuno, come se la persona reale avesse quella dimensione e fissità. Quando vi siamo rientrati, contenti di non aver più davanti uno schermo, bensì i visi dei ragazzi, c’erano i soliti 27 studenti, costretti seduti su sedie e senza banchi, con orari ridotti e cattedre scoperte. Molti di questi inconvenienti si sarebbero potuti evitare con una diversa volontà politica. La cosa più grave in assoluto è stata che, di nuovo in pochi mesi, non si garantiva a tutti gli studenti italiani un eguale diritto allo studio. Il Ministero, e a cascata gli Uffici Scolastici Regionali, hanno scaricato tutto sulle singole scuole, rinvigorendo la tanto (da loro) amata autonomia e ogni istituto si è organizzato a suo modo, tra classi intere in presenza, o divise tra casa e scuola. Gli autobus, specie nelle grandi città, sono tornati ad affollarsi. Gli scellerati comportamenti estivi hanno contribuito, insieme a ciò, alla ripresa dei contagi. Il 26 settembre c’è stata una manifestazione organizzata da Priorità alla Scuola a Piazza del Popolo a Roma, con l’adesione di alcuni sindacati, mentre nel frattempo altri avevano indetto giornate di sciopero. Ma la macchina era in discesa e senza freni.
L’anello. Il 26 Ottobre il Ministero ha emanato una nota – la famigerata circolare Bruschi – che regolava la DDI, dando ai singoli istituti nella loro autonomia il compito di organizzarla seguendo i parametri lì contenuti. Il criterio era semplice: impedire ai prof, sfaticati per antonomasia, di perdere i minuti di lezione anche davanti ai PC. Senza tenere in conto l’esposizione ai monitor nostra e dei ragazzi, ha prevalso l’impulso propagandistico di poter dire che tutti gli studenti avrebbero avuto online il medesimo orario che hanno in presenza, eliminando di fatto la possibilità di frazioni orarie e attività asincrone. Era la negazione dei principi didattici che tutti avevamo sostenuto durante il lockdown. Intanto nel Lazio abbiamo avuto il tempo di assistere, nella medesima settimana, al passaggio dalla DaD al 50 % decretata dalla Regione, a quella al 75% decretata dal DPCM di Conte, fino, poco dopo, alla didattica a distanza totale per le scuole superiori in tutta Italia. Infanzia, elementari e medie potevano proseguire in presenza, almeno in alcune regioni. Di rinvio in rinvio siamo arrivati a Natale. L’anello era chiuso. Dal 5 marzo nulla era cambiato: il Paese non aveva neanche provato, seriamente, a ricominciare a costruire una scuola per il futuro partendo dalla pandemia.
Vanità delle vanità. Nella calza non abbiamo trovato le misure necessarie, ma il sistema non avrebbe tollerato di avere ancora una parte rilevante della scuola in DaD. Dopo una serie di rinvii, in forme diverse a seconda delle regioni, anche alle superiori si è tornati in molte regioni in presenza, per ora al 50%. È stato il momento dei documenti prodotti dai docenti e pubblicati su Il manifesto, delle proteste e dello sciopero del 29 gennaio, di alcune occupazioni, del cambio di governo.
Tutto ciò appare, direbbe Qohelet, vano soffiare di vento. Le circolari sugli organici per il prossimo anno scolastico, appena uscite, impongono alle superiori classi con i numeri di alunni previsti dalla legge 81 del 2009, Ministra Gelmini. Pandemie o meno, proteste, crisi, nulla di nuovo sotto il sole.