Verifica semestrale di Didattica della storia – Epistemologia della storia – SSIS Lazio (2001)
- Questioni di metodo
Nel presentare il lavoro di interrogazione della fonte a me assegnata nel laboratorio di epistemologia della storia, devo premettere una serie di considerazioni che, sulla scorta di un testo di Carr, ritengo illuminanti. Nel capitolo introduttivo di questo testo non recentissimo – come gran parte dei testi di riflessione sulla storia – intitolato “Lo storico e i fatti storici”, Edward H. Carr diffida dall’assumere nei confronti delle fonti il feticismo positivista, sicuro dell’oggettività e dell’efficacia del metodo scientifico: “Il feticismo ottocentesco per i fatti era integrato e garantito dal feticismo per i documenti. I documenti costituivano l’Arca del Patto nel tempio dei fatti. Lo storico si avvicinava ad essi in atto riverente, con animo sottomesso, e ne parlava in tono colmo di rispetto. Se una cosa si trova nei documenti, allora è così, e basta. Ma che cosa ci dicono i documenti, i decreti, i trattati, i libri mastri, i libri azzurri, i carteggi ufficiali, le lettere private e i diari – allorché ci accostiamo a loro? Nessun documento è in grado di dirci più di quello che l’autore pensava – ciò che egli pensava fosse accaduto, ciò che egli pensava che sarebbe dovuto accadere o sarebbe accaduto, o forse soltanto ciò che egli voleva che altri pensassero che egli pensasse, o anche semplicemente ciò che egli pensava di pensare”[1]. I documenti contengono, anche quando sembrano più oggettivi, punti di vista che possono trascendere le intenzioni degli stessi compilatori. A questa cautela ne va tuttavia aggiunta un’altra, che attiene al punto di vista di chi i documenti li trova, li classifica e li utilizza per le sue ricerche: “Prima di poter servirsi dei fatti, che siano stati trovati o no nei documenti, lo storico deve rielaborarli: l’uso che egli ne fa è, se posso dir così, l’elaborazione di un’elaborazione”[2].
Ma non si tratta solo di soggettività nel modo in cui, rielaborandoli per un certo scopo, i documenti prendono forma. Soggettiva è la logica che governa la scelta e la classificazione, l’inclusione e l’esclusione di quelle che Georges Duby chiama “tracce”: “…ogni generazione di storici compie una scelta, trascura certe tracce, ne riesuma, invece, certe altre alle quali nessuno da un certo tempo, o da sempre, prestava attenzione. In conseguenza, già lo sguardo che si rivolge a questi detriti è soggettivo; dipende da un certo interrogativo, da una certa problematica…[3].
Coerentemente con quanto esposto ho operato nel lavoro di interrogazione della fonte alcune scelte di metodo. In primo luogo ho adottato uno scopo sovrastrutturante, scegliendo – con tutti i rischi del caso, compreso quello di non mettere completamente a fuoco il documento – una chiave di lettura: capire la mentalità che guida non tanto i miracoli della beata Margarita o le azioni e reazioni dei personaggi di contorno – quanto gli estensori del documento, visti all’interno della loro epoca. In secondo luogo, consapevole del carattere frammentario di un’operazione di questo genere applicata ad una sola fonte senza conoscerne altre se non attraverso le relazioni orali dei colleghi, non ho preteso di costruire una “teoria” sull’oggetto dell’analisi ma ho presentato una serie di osservazioni argomentate, in una forma necessariamente non sistematica.
Questa prospettiva mi è stata suggerita da due spunti metodologici tra loro strettamente connessi: in primo luogo la necessità di un fattore “sostitutivo” rispetto alla fase della ricerca e della classificazione delle fonti – già compiuta, a monte, dal docente, ma inscindibile dal momento dell’interpretazione -, che ho individuato in una parziale preconoscenza del contesto e dei fenomeni che in esso avvengono; in secondo luogo, il pregiudizio, che scaturisce dalla preconoscenza, che ai biografi basso-medievali si adatti efficacemente la definizione di Carr e che pertanto l’interesse centrale di questi documenti sia da cercare nel modo di presentare i fatti più che nei fatti stessi, laddove in una ipotesi di ricerca più ampia e articolata ci si servirebbe di essi non per saperne di più sulle donne del XIII e XIV secolo ma sul modo in cui le donne sono percepite nella società, sui modelli e sulle aspettative che vengono loro riferiti.
- La mentalità dei “miracoli” della beata Margarita da Città di Castello nel racconto dei suoi biografi.
Il punto di partenza della mia riflessione è stata la domanda: Cosa ci si aspetta dalla beata Margarita? Qual è la sua specializzazione, il suo campo d’azione? La fonte si è mostrata molto generosa su questo punto, presentando le specializzazioni in modo schematico come premessa al racconto:
- liberare dai demoni (o spiriti immondi)
- guarire dalle malattie (paralisi, fratture, gonfiori, febbri, fistole, piaghe, dolori muscolari, ferite, cecità e sordità, cancro)
- resuscitare i morti
- predire il futuro
Si tratta di un’attitudine ai miracoli piuttosto “generalista”, tenendo presente quanta importanza abbiano in questo scorcio di Medioevo temi come il corpo e la percezione della sua fragilità e quanto sia forte la necessità di esorcizzare il male. Considerato anche lo stile che connota i due documenti e la qualità dei fatti narrati, non si può non estendere allo scenario che si ricava dai due documenti la rappresentazione che dell’Autunno del Medioevo offre lo storico Johan Huizinga. Si tratta di un’epoca a tinte forti, dominata dalla violenza e dal dolore, ma anche da un senso di forte divaricazione tra il bene e il male, tra la sanità e la malattia: “Quando il mondo era più giovane di cinque secoli tutti i casi della vita avevano forme esteriori molto più violente. Tra dolore e gioia, tra calamità e felicità la differenza pareva più grande di quanto lo sia per noi (…) Alle calamità e all’indigenza si trovava meno sollievo rispetto al giorno d’oggi, esse arrivavano più tremende e strazianti. La malattia si differenziava più nettamente dalla salute”[4].
All’interno del racconto i quattro punti non sono approfonditi nello stesso modo. Non più di due o tre sono i morti resuscitati, a fronte di decine di guarigioni, mentre le malattie mentali – qui trasfigurate nella forma di demoni o di spiriti immondi – restano un po’ sullo sfondo. La beata Margarita si specializza poi, nel suo campo di azione, nella guarigione delle malattie dei sensi, la cecità e la sordità. Elemento che si spiega con la sua condizione di menomazione della vista, e che trova nel racconto la sua giustificazione e gratificazione: “…costei nasce privata degli occhi materiali affinché non veda il mondo; si nutre ormai di luce divina affinché, stando sulla terra, guardi solo il cielo”.
Per la gran parte i miracoli recensiti sono compiuti post mortem. Da notare che la struttura stessa della recensione dei miracoli, in entrambi i documenti, è in gran parte a ritroso: la vita della beata, in cui pure non mancano atti degni di nota, viene raccontata dopo un lungo e minuzioso catalogo di miracoli compiuti “in devotione beatae Margaritae”, in accordo a quanto stabilito dalla Chiesa dal 1200 circa il modo di comportarsi degli aspiranti “santi”. Nella stessa luce va letta la continua, scrupolosa asserzione della veridicità del racconto nella premessa alla Recensio Maior – dove l’estensore dichiara di avere superato non pochi pregiudizi prima di decidersi “a inserire senza indugio in uno scritto una successione di cose vere” – e nelle stesse recensiones, dove gli atti della beata appaiono di volta in volta attestati da “instrumenta publica”, sotto forma di giuramenti davanti a notai da parte dei beneficiari o, nella peggiore delle ipotesi, di annunci pubblici davanti a numerosi testimoni.
I due recensori usano un linguaggio semplice e lineare, non perdono tempo a raccontare avvenimenti marginali ma concentrano tutta la loro attenzione sulle virtù taumaturgiche della beata Margarita, ripetendo più volte gli stessi concetti, le stesse formule ed espressioni, e ricorrendo con molta parsimonia a elementi simbolici o argomenti dottrinari. Ne risulta un quadro in cui l’efficacia della santità rifulge nella quantità degli atti e nell’immediatezza con cui si compiono le guarigioni, “in eodem tempore” e “naturaliter”: si dice che un malato “adheo libere fuit sanatus, ac si numquam passus fuisset”. Così un morto per qualche disgrazia, per intercessione della beata, “sanatus surexit ac si nec mortuus fuisset, nec cadens se lesisset”[5].
La società che assiste ai miracoli della beata Margarita, significativamente presentata, all’inizio della Recensio Maior quale “donna povera, deforme nel corpo e abietta a Città di Castello”, è la società comunale della Toscana tra il XIV e il XV secolo – i narratori non devono essere molto posteriori alla materia narrata -, popolata di nuove figure borghesi e di un certo senso dell’utile. Nonostante siano dei predicatori i biografi non risparmiano qua e là richiami alla realtà concreta, allo status sociale dei beneficiari dei miracoli e ai loro beni – per esempio sono guariti, secondo la “recensio minor” anche animali domestici quali cavalli, maiali e buoi -; la selettività di alcuni miracoli sembra mostrare che la loro mentalità sociale non è in contraddizione con quella della società che rappresentano – al ricco Offrenduccio si predice che non dovrà versare una grande quantità di denaro per un risarcimento; quando a un giovane robusto si rompono gli intestini accorrono in molti in quanto “nobile e persona di decoro” – sempre che non intervenga, a mescolare le carte, un’“oscura dispensa di Dio”: la ricca Checa, richiesta da molti a causa delle sue ricchezze, dovrà assoggettarsi al servizio di Cristo e indossare l’abito dei Predicatori.
[1] E. H. Carr, What is History?, London 1961; trad. it. Sei lezioni sulla storia, Torino 1982, p. 20.
[2] ibid., p. 21.
[3] G. Duby, Dialogues, Paris 1980; trad. it. Il sogno della storia, Milano 1986, p. 41.
[4] J. Huizinga, Herfsttij der Middeleeuwen, 1921; trad. it. L’Autunno del Medioevo, Roma 1997, p. 25.
[5] La seconda recensio risulta, rispetto alla prima, anche più spedita nel presentare i fatti. Va detto che il rapporto tra le due recensiones, al di là di piccole differenze, è quello tra un documento più esteso e un riassunto.