[Diario di scuola, pp. 97-8]
Il mal di grammatica si cura con la grammatica, gli errori di ortografia con l’esercizio dell’ortografìa, la paura di leggere con la lettura, quella di non capire con l’immersione nel testo, e l’abitudine a non riflettere con il pacato sostegno di una ragione strettamente limitata all’oggetto che ci riguarda, qui e ora, in questa classe, durante quest’ora di lezione, fintanto che ci siamo.
Ho maturato questa convinzione dalla mia personale esperienza scolastica. Mi hanno fatto tante volte la morale, spessissimo hanno tentato di farmi ragionare, e in maniera benevola, poiché fra gli insegnanti non mancano le persone gentili. Per esempio il direttore del collegio dove ero finito dopo la mia rapina domestica. Era un ex ufficiale di marina, rotto alla pazienza degli oceani, padre di famiglia e marito premuroso di una moglie che si diceva fosse affetta da un male misterioso. Un uomo molto preso dai suoi e dalla direzione di quel convitto dove i casi come il mio non mancavano certo. Eppure quante ore ha speso a convincermi che non ero l’idiota che sostenevo di essere, che i miei sogni di esilio africano erano tentativi di fuga, e che bastava che mi impegnassi seriamente, anziché lagnarmi, per far emergere le mie capacità! Pensavo che fosse proprio buono a interessarsi a me, con tutte le preoccupazioni che aveva, e promettevo di reagire, sì, sì, da subito. Solo che appena mi ritrovavo nell’ora di matematica, o nello studio assistito chino su una lezione di scienze naturali, non restava più nulla della fiducia incrollabile che avevo tratto dal nostro colloquio. Il fatto è che non avevamo parlato di algebra, il direttore e io, né della fotosintesi, ma di volontà, di concentrazione, avevamo parlato di me, di un io assolutamente in grado di fare progressi, ne era convinto, se mi mettevo di impegno! Questo io, gonfio di improvvisa speranza, prometteva di applicarsi, di non raccontare più storie; ahimè, dieci minuti dopo, di fronte all’algebricità del linguaggio matematico, quell’io si sgonfiava come un palloncino, e durante lo studio non poteva che arrendersi dinnanzi all’inesplicabile predilezione delle piante per l’anidride carbonica mediante la strana clorofilla. Tornavo a essere il solito cretino che non ci avrebbe mai capito niente, per il semplice motivo che non ci aveva mai capito niente.