STEFANO ROSSETTI Sulle tracce dei giovani

Da «La scuola e noi», 30 giugno 2022

Il giudizio sulla “bellezza” o “bruttezza” delle tracce di Italiano all’esame di Stato è molto soggettivo. Così come sulla loro “vicinanza” al sentire e alla cultura di chi termina il suo ciclo di studi. Tuttavia, è innegabile che queste tracce assumano un valore particolare, per certi versi simbolico. Ѐ come se la Scuola – istituzione e comunità -, per mano di chi le ha ideate e scritte, disegnasse l’immagine ideale del patrimonio culturale che si aspetta di aver contribuito a costruire al termine del percorso formativo: quali conoscenze, quali abilità, quali processi critici e argomentativi fondati su di esse. Ѐ questo, infatti, il punto di partenza di chi le ha giudicate nell’animato dibattito pubblico di questi giorni, per lo più riconoscendo in esse una particolare apertura al presente e alla sensibilità degli studenti, talvolta arrivando ad affermare che “la scuola è migliore della politica e della società”, perché “i brani proposti reclamano uno studente capace di pensiero critico” (Tomaso Montanari, sul “Fatto Quotidiano” del 23 giugno)

Alla luce della lettura delle tracce e degli svolgimenti che le ragazze e i ragazzi della mia classe ne hanno tratto, la situazione mi sembra invece molto sfaccettata e per certi versi ambigua. Vorrei provare a spiegare perché, riconoscendo in partenza la parzialità del mio sguardo.

Prima di tutto, la qualità o l’attualità dei testi citati nelle tracce non è affatto sufficiente di per sé a determinare il valore o l’importanza del compito d’esame. Perché il compito non ha come obiettivo dimostrare che chi l’ha formulato è moderno, legge e attribuisce importanza a temi sociali e politici: piuttosto, serve a mettere chi scrive – le nostre ragazze e i nostri ragazzi – in condizione di esprimere la propria intelligenza. Dunque, la “bellezza” di una prova sta nell’adeguatezza e nella qualità delle domande e degli stimoli che offre rispetto ai percorsi delle materie di studio, non nel valore del testo dal quale parte. Fatta salva una certa dose di utopismo, necessario nella scuola, si valuta quindi rispetto al punto al quale può realisticamente condurre chi scrive, non al punto cui è già arrivato chi formula la prova o un ipotetico studente/ cittadino perfetto. Se questa prospettiva è corretta, a me sembra che le tracce proposte partano da uno stereotipo di giovane consapevole, interessato a temi e problemi di attualità, sensibile alle diverse manifestazioni culturali e artistiche: una figura ben diversa da una buona parte dei giovani e degli studenti reali, spesso disorientati (la qualità del dibattito sui social e sui mezzi d’informazione popolare è scadente) e poco informati.

Ѐ alla luce di questa realtà che vanno letti gli argomenti proposti: essi esprimono certamente la positiva tensione verso una scuola aperta al mondo civile-politico e all’interiorità delle giovani generazioni, ma finiscono per evidenziare uno scollamento dalla realtà vera delle scuole. A parte alcune eccezioni (in particolare le analisi testuali), sono infatti debolmente legati alle discipline, soprattutto quando affrontano temi trasversali come la filosofia della scienza e la bioetica. Si può ragionevolmente presumere che il tema dei social sia stato affrontato in forma critica, almeno episodica e frammentaria, nei tanti incontri aggiuntivi e nell’insegnamento di Educazione Civica. Quello della musica, invece, non è presente nel curricolo della stragrande maggioranza degli istituti superiori. Dunque, letteratura a parte, sono stati proposti argomenti assenti, trattati episodicamente o marginali, rispetto ai curricoli disciplinari; apparentemente facili, però, da affrontare in una prospettiva attualizzante, schiacciata sul presente e sul vissuto personale di chi scrive. Ne sono derivati spesso svolgimenti stereotipati, basati su luoghi comuni o su un approccio sentimentale piuttosto che ragionativo.

Del resto, questo è inevitabile, quando si sganciano temi e problemi dalla loro profondità storica e culturale, e la dimensione della profondità si può attingere solo attraverso un lavoro di studio mirato e progressivo. Per spiegarmi meglio, se ho studiato storia della musica, ascoltato confrontato e discusso diversi generi e forme, sarò in grado di dire qualcosa di significativo sul tema; altrimenti, è altissimo il rischio di cadere nel puro soggettivismo impressionistico. Peggio ancora riguardo ai social, sui quali è stato detto che è un argomento sul quale i giovani hanno sicuramente molto da dire (Alex Corlazzoli, ad esempio, si dice certo che i giovani sono in gradi di svolgerlo molto bene). Tuttavia, a me sembra che questa quantità di cose da dire non sia affatto una garanzia che esse siano segnate da consapevolezza e senso critico: la scuola è proprio il luogo principale in cui si impara che “vivere un’esperienza” e “riflettere sull’esperienza vissuta” non sono affatto due facce della stessa medaglia. E ne facciamo esperienza ogni volta che ci troviamo di fronte alla catastrofe dell’attenzione determinata dagli smartphone.

Per questi motivi ho trovato piuttosto deludenti le tracce proposte dal ministero.

Mi sembra che contenessero un invito al solipsismo e al conformismo (dire ciò che si sa essere politicamente corretto), al quale solo una parte delle ragazze e dei ragazzi ha saputo sottrarsi attraverso gli strumenti che la scuola ha fornito loro. E tuttavia proprio in questa libertà e in questo coraggio dovrebbe sfociare l’insegnamento; nella capacità di esprimere la propria alterità o divergenza rispetto alla realtà descritta e alle idee che si discutono, non nel prestare il proprio assenso e mostrarsi obbedienti, dando ragione a chi con tutta evidenza ce l’ha.

Certo, come accennato in precedenza, è possibile leggere queste tracce come auspici di una scuola che verrà. Purché però si tenga finalmente conto di due elementi di realtà.

Il primo è che una casa si costruisce dalle fondamenta, non dal tetto: se si vogliono creare le condizioni di un diverso intreccio fra i saperi disciplinari, il mondo e il vissuto dei giovani (sviluppare competenze?), sarebbe corretto, credo, discutere in modo ampiamente partecipato sui contenuti disciplinari, sui processi logici che attivano (in particolare, sull’attualizzazione), sul loro possibile dialogo con la società. Per evitare situazioni stranianti come quella in cui ci troviamo ogni anno in occasione del colloquio dell’esame di Stato, quando si chiede alle persone una difficile prestazione mutlidisciplinare alla quale non sono state preparate durante anni di corso ancora in larga prevalenza disciplinari.

Il secondo è che questa scuola dello spirito critico, dell’etica collettiva e della responsabilità individuale non sembra affatto essere una priorità del decisore politico; tutto preso, al contrario, a inseguire l’ultima moda tecnologica, la competizione fra insegnanti, il primato della burocrazia.

C’è presente e presente, insomma, e non tutti sono un valore.

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