[«Internazionale», 1387, 4 dicembre 2020, supplemento speciale]
Era l’Argentina. Per anni ci sono stati milioni di cinesi, di russi, di indiani e di africani che non avevano mai sentito parlare di gauchos e di tango, di Evita, di Gardel o di Che Guevara, ma avevano visto giocare Maradona, ed era tutto quello che sapevano di questo paese sperduto. A volte mi infastidiva che fosse un calciatore: che quello che si conosceva dell’Argentina fosse un calciatore. O peggio: che l’unica cosa che univa gli argentini fosse un calciatore. Allora mi consolavo pensando che in realtà era un artista, esponente dell’arte più popolare, dell’arte più piccola.
Giocava come nessun altro, letteralmente. Era un talento straordinario, capace di stupire sempre. Se la genialità consiste nel fare in un modo diverso quello che tutti fanno allo stesso modo, Maradona era un genio. Ha fatto due o tre cose memorabili e tantissime cose impossibili. Soprattutto, faceva emozionare: sapeva dare a tutto un tono drammatico. Il suo gioco era un concerto incerto di colpi di tacco, tunnel e rabone, passaggi senza un passaggio, un gioco sempre al limite. Cercava sempre di fare qualcosa destinato a fallire perché era impossibile, e all’ultimo momento ci riusciva. Maradona sembrava giocare come viveva: sull’orlo dell’abisso.
La gambeta – la finta – consiste nel convincere qualcuno che stai per fare una cosa e invece ne fai un’altra: è la storia della sua vita. Era nato per essere un ragazzo povero, emarginato; diventò il centro di un mondo, ricco, famoso e adorato; minacciò quel mondo con la sua sfrontatezza, lo rovinò con le sue inquietudini. E stato un grande giocatore, ma è stato senza alcun dubbio molto più di questo, e per lui era comunque poco. È riuscito a essere Maradona perché non aveva pace, perché voleva sempre di più: la sua vita, per questa stessa ragione, è stata tormentata.
Giocava come nessun altro, ed era l’Argentina. Non è facile essere un paese. E non era facile essere Maradona, sapere di essere la persona più famosa del mondo dopo il papa, venire da una baraccopoli di Buenos Aires, andare da Giovanni Paolo II e dirgli di vendere il suo oro e ridistribuire la sua ricchezza. Sapere che venti o trenta paesi producevano figurine con la sua immagine, che tutti i ragazzi volevano essere Maradona. Non era facile, ma credeva di poter gestire tutto. Aveva tanto talento e tanta ricchezza calcistica da pensare di poterla sprecare senza che finisse; era l’Argentina.
Non era facile, e Maradona ha pagato per questo. E stato molto difficile essere Maradona quando era ancora Maradona; è stato insopportabile esserlo quando non lo era più. Dopo essersi ritirato, ha continuato a viaggiare sull’orlo dell’abisso, cadendo.
Cadeva, si rialzava, cadeva. Si compiaceva delle sue glorie passate per mancanza di glorie future; l’Argentina, probabilmente. Si infatuava di qualche leader d’occasione e l’applaudiva fino a stancarsi e poi lo cambiava per un altro; l’Argentina, forse. Dedicava un grande impegno e una grande cura a distruggersi; l’Argentina, insomma. Per questo l’Argentina si è impegnata tanto ad amarlo e a odiarlo. L’abbiamo amato perché è stato il salvatore di questa entità minore che viene chiamata patria. L’abbiamo odiato perché ne ha combinate troppe: ha difeso politici odiosi, ha maltrattato giornalisti e parenti, si è maltrattato con ostinazione. L’abbiamo odiato, soprattutto, perché ci ha obbligati a soffrire per lui: per le sue disgrazie e per i suoi sgarbi. L’abbiamo odiato perché ci ha reso così difficile il vizio di amarlo.
Nonostante tutto, non I ‘abbiamo mai lasciato. Perché il calcio sa creare questi amori? Perché ora milioni di persone che non I’hanno mai conosciuto piangono per lui? Cosa dice di lui ma, soprattutto, cosa dice di noi, del nostro sentirci orfani? Perché ci fa male come ci fa male, come se fosse morto qualcuno a noi vicino? A essere morto, sembra chiaro, è un frammento delle nostre storie. La morte non è unanime: ti arriva a pezzi, s’impossessa di te a poco a poco. Ti morde quando muore chi ti sta a cuore. Maradona è stato tutti noi e tutti noi siamo stati Maradona. Morendo uccide per noi quei momenti, ci strazia.
Per anni è stato l’Argentina, ed erano anni ormai che non era più lui, ma morendo è tornato a esserlo: la morte cancella tante cose. Oggi l’Argentina è lui, il suo lutto così precoce. Per questo ricordo quella sera in cui per me è diventato una lingua. Successe quasi trent’anni fa: in una bettola di Pechino piena di gente, tre cinesi giovani, ben vestiti e molto ubriachi mi videro perso. A gesti mi chiesero da dove venissi, gli dissi che ero argentino, mi dissero Maradona; a gesti mi invitarono a sedermi. Non sapevano una parola di inglese, né io di cinese; mi offrirono da bere bicchieri su bicchieri di un liquore dolciastro. Eravamo ubriachi e felici; ci sorridevamo, ci davamo pacche sulle spalle e ci dicevamo, in toni diversi, l’unica parola condivisa:
“Maladona, Maladona”.
“Maaaradona”.
“Maladonaaaaa”.
Fu un lungo dialogo: alla fine ci salutammo con un abbraccio. Quando ci rivedremo continueremo a parlare la stessa lingua: Maradona non sarà mai una lingua morta.