[La voce di Tristan, 30 ottobre 2020]
Alzi la mano, chi ha soluzioni da proporre, per la scuola che sarà domani. Io non ne ho; al massimo avanzo l’ennesima aporia contro quell’aberrante esperienza che è – è stata e sarà ancora, a quanto pare – la Didattica a Distanza. Perché di certezze al tempo del Covid-19, anche a noi docenti, ne restano davvero poche. Di sicuro queste certezze, cui continuiamo ad aggrapparci racimolandole in giornate nevrasteniche e con la speranza che siano la chiave di (s)volta di questo nebuloso periodo storico, pesano poco di fronte agli allarmi purtroppo giustificati che ci ingombrano il cuore e lo sguardo. La chiusura delle scuole per contrastare la pandemia è necessaria, e lo sa ogni docente sano di mente; ma sta rischiando di degenerare in qualcosa di ben più pericoloso. Un grimaldello nelle mani sbagliate che rischia di fare danni inenarrabili sul futuro del sistema italiano, e occidentale.
QUESTIONE DI NOMI. MA LE DISUGUAGLIANZE RESTANO. Il delirio sconcertante di questi nuovi giorni di didattica a distanza è innanzitutto nella nuova nomenclatura proposta dal Ministero e subito avallata da uffici scolastici provinciali, DS conniventi o sottomessi e Funzioni Strumentali annesse. È arrivato come una specie di strano ordine, in linea peraltro con la deriva burocratizzante e centralistica che da anni si è impossessata della scuola. In un sistema tanto sclerotizzato nell’acquisizione e riformulazione di circolare, decreti, bozze, cronoprogrammi ecc. tanto mirabolanti quanto sterili. E quindi: mai più DaD, si dice DDI. Come se Didattica Digitale Integrata (da portare avanti parallelamente alla didattica in presenza) potesse con un colpo d’acronimo rimuovere tutte le storture, le sperequazioni, i disagi sociali ed emozionali che abbiamo già sperimentato con la Didattica a Distanza del primo lockdown.
Questa prima settimana è stata – c’è bisogno di sottolinearlo? – un fiasco colossale: la DDI ha riportato in auge i vecchi problemi già emersi in precedenza. Anzi, acuendoli ancor di più: aumentando per esempio la forbice della partecipazione in ogni classe, con un terzo dei ragazzi tutto sommato connessi e partecipi con i propri devices e gli altri ⅔ “fuori dal giro” della lezione online per i più disparati motivi: prof non c’ho la telecamera, prof io entro ma poi la piattaforma mi caccia, prof ho finito i giga, prof non riesco a entrare, prof non trovo il link, prof non sono a casa e non prende, prof non so accendere un computer (in varie declinazioni dialettali che non sto qui a dire).
GNORRI PATENTATI O TROGLODITI DIGITALI? Con la pletora di scuse – più o meno legittime e sincere – che abbiamo ascoltato in questa prima settimana di DaD-lirio tecnologico potremmo riempirci conversazioni nei corridoi per gli anni a venire, ma c’è uno sforzo da fare: tocca andare al succo della questione e provare a discernere, in ogni classe, caso per caso. Scoprendo, ad esempio, la provenienza effettiva di quelle frasi. Il dubbio amletico rimane quello: sono alibi da prendere cum grano salis, oppure SOS lanciati da chi ha difficoltà strutturali con i mezzi tecnologici, legate a volte anche al disagio economico della propria famiglia?
Sulla prima categoria non converrà spendere parola: i ‘furbetti della connessione’ fanno il paio con i ragazzi dei filoni, delle seghe, i marinari, i bigiari et similia che abbiamo conosciuto durante la didattica in presenza – e sembra un’era fa. D’altronde, come non capirli? Troppe calde, le lenzuola del letto, specie dopo aver fatto after in tornei oltreserali alla Playstation o in maratone notturne per la serie preferita; tanto, mamma e papà non ci sono per i motivi più disparati, e la sveglia può essere spostata più in là. Tanto, la scuola può aspettare.
L’EDUCAZIONE CIVICA DIGITALE, MENTRE LA LUNA CI ACCECA. Per l’altro ⅓ conviene invece partire da un enunciato difficilmente scalzabile: l’educazione civica digitale – altra formula in voga nelle ultime settimane – è un fallimento già in partenza. Sì, perché i presunti nativi digitali in molti casi sono tali solo per età anagrafica, e non per motivi di merito: in questi 7 mesi tutti noi docenti – perfino quelli delle superiori, che dovrebbero avere davanti studenti con una discreta padronanza delle nuove tecnologie – ci siamo imbattuti in alunni sprovvisti di un indirizzo mail, in altri incapaci di scriverne una (con il ‘testo’ messo alla voce ‘oggetto’ e la ‘voce’ testo lasciata completamente bianca, come un campo sterminato di silenzio), in altri ancora frettolosi e neppure disposti ad ascoltare le indicazioni per convertire il file jpg dei loro compiti nel corrispettivo pdf (bastava una qualsiasi app, e invece…), in altri inabili perfino a scrivere un documento Word o a preparare una presentazione in Power Point!
Come pretendere perciò di far seguire a noi docenti – peraltro già formati sulle tematiche delle TIC e delle competenze chiave di cittadinanza europea – ennesimi corsi di formazione sull’argomento se sui nostri studenti il positivismo digitale 3.0 ha prodotto, in barba a ogni rosea aspettativa, una desertificazione culturale e una completa schiavitù verso il medium, usato senza alcuna riflessione critica? Non c’è piattaforma digitale o registro elettronico che tenga, perciò: la scuola dovrebbe fare sin dalla primaria un piano di educazione al digitale serio e ponderato, tarato gradualmente sulle potenzialità dei discenti, altrimenti continuerà a voler riempire un deserto con i secchielli d’acqua. Col rischio di ritrovarsi domani una società di trogloditi digitali, che sanno smanettare fra WhatsApp e TikTok ululando come se avessero in mano carne di selvaggina senza sapere come si accende il ‘sacro fuoco’ di Internet: che, come qualsiasi strumento progettato dall’uomo, può essere una risorsa straordinaria anche a scuola.
Soprassediamo pure sulla necessità di investimenti strutturali: l’innegabile connettività a banda larga, da garantire a tutti i nostri studenti, da Palermo ad Aosta, dalle Cozie alle Giulie, dal Tirolo al Salento e isole comprese è una questione non più procrastinabile, se si vuole veramente trasportare la scuola verso la democrazia della conoscenza, garantendo a tutti i discenti le stesse opportunità didattiche e di studio. Discorsi già sentiti, è vero: l’avevo detto, che la mia alla fine sarebbe stata un’aporia…