RAYMOND CARVER Gli si è appiccicato tutto addosso

Da «Di cosa parliamo quando parliamo d’amore»

È venuta a Milano per Natale e vuole sapere com’era la vita quando era piccola.
Raccontamelo, gli dice. Raccontami come ve la passavate a quei tempi. Intanto, sorseggia Strega, aspetta, lo osserva attentamente.
È una ragazza in gamba, magra, attraente, una che se la cava sempre.
È passato un sacco di tempo. Saranno vent’anni fa, dice lui.
Sì, ma tu te lo ricordi, no?, fa lei. Dai, su.
Ma che vuoi sapere?, chiede lui. Che altro potrei dirti? Ti potrei raccontare una cosa che è successa quando eri molto piccola. In qualche modo c’entri pure tu, dice lui. Ma mica tanto.
Raccontamela, fa lei. Ma prima dammi un altro bicchierino, così non dovrai interromperti nel bel mezzo della storia.
Lui torna dalla cucina con i bicchierini, si sistema sulla poltrona. Comincia.

Anche loro erano poco più che ragazzini ma erano innamorati pazzi, lui diciott’anni, lei diciassette, quando si erano sposati. Poco tempo dopo, ebbero una figlia. La bambina arrivò verso la fine di novembre, nel bel mezzo di un’ondata di freddo che coincise proprio col culmine della stagione della caccia all’anatra da quelle parti. Il ragazzo era un cacciatore appassionato, capisci. C’entra con questa storia.
Il ragazzo e la ragazza, ormai marito e moglie, padre e madre, vivevano in un appartamento di tre stanze, proprio sotto lo studio di un dentista. Tutte le sere pulivano lo studio di sopra in cambio di affitto ed elettricità. D’estate dovevano tenere in ordine anche il prato e i fiori, mentre d’inverno il ragazzo spalava neve dal marciapiede e spargeva sale sul viale. Mi segui? Ho reso l’idea?
Certo, dice lei.
Bene, fa lui. Così un giorno il dentista scopre che usavano la sua carta intestata per la loro corrispondenza personale. Ma questa è un’altra storia.
Lui si alza dalla poltrona e guarda fuori dalla finestra. Vede le tegole dei tetti e la neve che continua a cadere.
Continua la storia, dice lei.
I due erano molto innamorati. Perdipiù avevano grandi ambizioni. Parlavano sempre delle cose che avrebbero fatto, dei posti dove sarebbero andati. Dunque, il ragazzo e la ragazza dormivano nella camera da letto e la bambina nel salotto. La piccola aveva, diciamo, tre settimane e aveva appena cominciato a dormire tutta la notte. Un sabato sera, dopo aver finito di lavorare di sopra, il ragazzo si fermò nell’ufficio del dentista e telefonò a un vecchio amico di suo padre, uno con cui andavano spesso a caccia. Carl, gli disse appena l’uomo ebbe alzato il ricevitore. Ci creda o no, sono diventato padre.
Congratulazioni, gli disse Carl. E tua moglie, come sta?
Sta bene, Carl. Stiamo tutti bene.
Sono contento, disse Carl. Mi fa piacere. Però senti, se hai chiamato per andare a caccia, ti devo dire una cosa. Qua sopra le anatre stanno volando a frotte. Mi sa che non ne ho mai viste tante in vita mia. Oggi ne ho tirate giù cinque. Domattina ci ritorno e, se vuoi, puoi venire pure tu.
Certo che voglio, disse il ragazzo.
Il ragazzo riappese il ricevitore e scese giù di sotto a dirlo alla moglie. Lei si mise a osservarlo mentre lui preparava le sue cose. Giaccone da caccia, cartuccera, stivali, calzettoni, berretto, mutandoni di lana, fucile a pompa.
A che ora ritorni?, disse la ragazza.
Probabilmente verso mezzogiorno, disse lui. Ma forse anche dopo, al massimo alle sei. È troppo tardi?
No, va bene, fece lei. Noi qua ce la caveremo benissimo. Vai pure e cerca di divertirti. Quando torni, magari, mettiamo un bel vestitino alla bambina e andiamo a trovare Sally.
Il ragazzo disse: Mi pare una buona idea.
Sally era la sorella della ragazza. Era bellissima. Non so se l’hai mai vista in foto. Il ragazzo era un po’ innamorato di lei, come pure era un po’ innamorato di Betsy, un’altra sorella. Glielo diceva pure, alla ragazza: Se noi due non eravamo sposati, con Sally ci provavo.
E con Betsy?, diceva la ragazza. Mi scoccia ammetterlo, ma sono proprio convinta che sia più carina sia di Sally sia di me. Che ne dici di Betsy?
Anche con Betsy, come no?, diceva il ragazzo.

Dopo cena il ragazzo alzò il riscaldamento e le diede una mano a fare il bagnetto alla bambina. Rimase ancora una volta meravigliato nel vedere come per metà la piccola rassomigliasse a lui e per l’altra metà alla ragazza. Sparse il borotalco su tutto il minuscolo corpo della figlia. Perfino tra le dita dei piedi e delle manine.
Svuotò l’acqua del bagnetto nel lavabo e poi salì di sopra a dare un’occhiata a che aria tirava. Fuori era nuvolo e faceva freddo. La poca erba rimasta sembrava fatta di tela di sacco, grigia e rigida com’era sotto la luce dei lampioni.
C’erano cumuli di neve ai lati del marciapiede. Passò una macchina. Sentì distintamente la sabbia scricchiolare sotto i pneumatici. Il ragazzo si abbandonò a immaginare la scena del giorno dopo: anatre che vorticavano nel cielo sopra di lui, il calcio del fucile che gli si tuffava nella spalla.
Quindi chiuse la porta a chiave e scese di nuovo giù.
A letto provarono a leggere un po’, ma finirono ben presto per addormentarsi; prima lei, lasciando affondare pian piano la rivista nell’imbottita.
Fu svegliato dal pianto della bambina.
In salotto la luce era accesa. La ragazza era in piedi vicino alla culla con la bambina in braccio. Poi rimise giù la piccola, spense la luce e tornò a letto.
Il ragazzo sentì la bambina piangere ancora. Stavolta la ragazza restò dov’era.
La piccola pianse a tratti per un po’, poi smise. Il ragazzo rimase in ascolto, poi ricominciò a sonnecchiare. Ma le grida della bambina lo riscossero. In salotto la luce era accesa. Si tirò su a sedere e accese la lampada sul comodino.
Non so cosa le abbia preso, disse la ragazza, camminando su e giù con la piccola in braccio. L’ho cambiata e le ho dato un altro po’ di latte, ma non la smette più di piangere. Sono così stanca che ho paura di farmela cascare dalle mani.
Tornatene a letto, disse il ragazzo. La tengo io per un po’.
Si alzò e prese in braccio la bambina mentre la ragazza si coricava.
Cullala così per qualche minuto, disse la ragazza dalla camera da letto. Magari tra un po’ si riaddormenta.
Lui si sedette sul divano con la piccola in braccio. Se la tenne in grembo, cullandola pian piano finché riuscì a farle chiudere gli occhi, mentre quasi si chiudevano anche i suoi. Facendo molta attenzione, si alzò e andò a rimettere la bambina nella culla.
Ormai mancava un quarto alle quattro, gli restavano quarantacinque minuti.
Si rinfilò nel letto e si appisolò. Ma pochi minuti dopo, la bambina stava di nuovo piangendo. Stavolta si alzarono entrambi.
Il ragazzo fece una cosa molto brutta: bestemmiò.
Ma insomma, che ti piglia?, gli disse la ragazza. Forse sta male o qualcosa del genere. Forse non le dovevamo fare il bagnetto.
Il ragazzo riprese la figlia in braccio. La bambina pedalò un po’ con i piedini e sorrise.
Guarda, disse il ragazzo, secondo me questa qui sta benissimo.
E tu che ne sai?, disse la ragazza. Qua, dammela un po’. Sono sicura che dovrei darle qualcosa, ma non ho la più pallida idea di che cosa le dovrei dare.
La ragazza la rimise nella culla. Il ragazzo e la ragazza rimasero a guardare la piccola e la bambina si rimise a piangere.
La ragazza la riprese in braccio. Piccina, piccina, disse con le lacrime agli occhi.
Forse le è rimasto qualcosa sullo stomaco, disse il ragazzo.
Lei non gli rispose. Continuò a cullare la piccola, senza prestare alcuna attenzione a lui.
Il ragazzo rimase in attesa. Andò in cucina e mise su il caffè. Si infilò i mutandoni di lana sopra la biancheria normale e se li abbottonò. Poi prese il mucchio degli altri vestiti.
E adesso che fai?, gli chiese la ragazza.
Me ne vado a caccia, disse lui.
Secondo me, non dovresti andare, disse lei. Mica voglio essere lasciata qui sola con la bambina che piange così.
Ma Carl mi sta aspettando, fece lui. Ci siamo messi d’accordo.
Non me ne frega niente di come tu e Carl vi siete messi d’accordo, rispose lei. E non me ne frega niente di Carl. Non lo conosco nemmeno, io, questo Carl.
Ma sì che lo conosci Carl. Te l’ho presentato, disse il ragazzo. Come sarebbe a dire che non lo conosci nemmeno?
Questo non c’entra niente e lo sai benissimo, disse lei.
Cos’è che c’entra, allora?, disse lui. C’entra che ci siamo messi d’accordo.
La ragazza disse: Io sono tua moglie. Questa è tua figlia. Sta male, o qualcosa del genere. Guardala. Perché piange tanto, se no?
Lo so che sei mia moglie, disse il ragazzo.
La ragazza si mise a piangere. Riadagiò la bambina nella culla, ma quella ricominciò subito a frignare. La ragazza si asciugò le lacrime con la manica della camicia da notte e riprese in braccio la piccola.

Il ragazzo si allacciò gli scarponi, indossò la camicia, il maglione e la giacca pesante. In cucina, il bollitore cominciò a fischiare.
Bisogna che ti decidi, disse la ragazza. O Carl o noi. Dico sul serio.
Come sarebbe a dire?, chiese lui.
Mi hai sentito benissimo, rispose lei. Se vuoi una famiglia, bisogna che ti decidi.
Per un po’ rimasero lì a guardarsi. Poi il ragazzo prese la sua attrezzatura e uscì. Accese il motore. Poi fece il giro dei finestrini e si mise d’impegno a raschiare via la neve gelata.
Spense il motore e rimase seduto lì per un po’. Quindi scese e rientrò in casa.
In salotto la luce era accesa, ma la ragazza dormiva sul letto. La bambina dormiva accanto a lei.
Il ragazzo si tolse gli scarponi, i calzoni e la camicia. Rimase con i mutandoni di lana e i calzettoni, seduto sul divano a leggere il giornale del mattino.
La ragazza e la bambina continuavano a dormire tranquille. Dopo un po’, lui andò in cucina e si mise a friggere la pancetta.
La ragazza lo raggiunse in vestaglia e lo abbracciò.
Ehilà, disse il ragazzo.
Mi dispiace per prima, disse lei.
Non fa niente, disse lui.
Non volevo scattare così.
È stata colpa mia, disse lui.
Tu mettiti a sedere, disse la ragazza. Che ne dici di una bella frittella da mettere insieme alla pancetta?
Dico che va benissimo, fece lui.
Lei tirò fuori le fette di pancetta dalla padella e poi si mise a battere l’impasto per le frittelle. Lui rimase seduto al tavolo a osservarla mentre si muoveva per la cucina.
Gli mise davanti un piatto con la pancetta e una frittella. Lui spalmò la frittella di burro, poi ci versò su lo sciroppo. Ma appena provò a tagliarla, si rovesciò l’intero piatto addosso.
Non ci si crede, disse, alzandosi di scatto dal tavolo.
Dovresti vederti allo specchio, gli disse.
Lui abbassò lo sguardo e vide che gli si era appiccicato tutto ai mutandoni.
Avevo proprio fame, disse, scuotendo la testa.
Avevi proprio una gran fame, fece lei, ridendo.
Si tolse con cura i mutandoni di lana e li lanciò contro la porta del bagno. Poi aprì le braccia e lei ci si buttò.
Non litigheremo mai più, disse lei.
Il ragazzo disse: Certo che no.
Ora lui si alza e riempie di nuovo i due bicchierini.

Tutto qui, dice. La storia è finita. Devo riconoscere che non è un granché.
Invece era molto interessante, dice lei.
Lui si stringe nelle spalle e si porta il bicchierino vicino alla finestra. Si è fatto scuro, ormai, ma continua a nevicare.
Le cose cambiano, dice lui. Non so bene come, ma cambiano senza che tu te ne accorga o lo voglia.
Sì, questo è vero, solo che… Ma non finisce la frase.
Lei lascia cadere l’argomento. Nel riflesso della finestra lui la vede che si studia le unghie. Poi alza la testa di scatto. Con aria allegra gli chiede se la porta a vedere la città, dopo tutto.
Lui dice: Mettiti gli stivali e andiamo.
Però non si muove dalla finestra, perso com’è nei ricordi. Si erano fatti un sacco di risate. Appoggiandosi l’uno all’altra, avevano riso fino alle lacrime, mentre tutto il resto – il freddo e dove lui sarebbe andato nel freddo – restava di fuori, almeno per il momento.

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