SERGE LATOUCHE Sobri per scelta verso la felicità

[«la Repubblica», 13 agosto 2008]

La decrescita? Ma è già una realtà! Ecco un argomento spesso usato contro i sostenitori della decrescita dai loro avversari. Che però corrono troppo. Se l’andamento dell’economia è indubbiamente fiacco, non siamo ancora alla crescita negativa. Con un Pil di mille miliardi di euro, l’un per cento corrisponde pur sempre a dieci miliardi, pari a una crescita del dieci per cento in un Paese con un Pii di cento miliardi di euro (l’ordine di grandezza dei Paesi del Sud). Dieci miliardi in più di prelievi dalle risorse naturali, di rifiuti e di inquinamento; dieci miliardi in più di dissesto del clima e di specie estinte.
È ancora troppo perché la biosfera possa rigenerarsi. Ma soprattutto, un conto è scegliere la decrescita, altro è subirla. Il progetto di una società della decrescita è radicalmente diverso dalla crescita negativa. Il primo può essere comparato a una cura di austerità volontariamente intrapresa per migliorare la propria forma fisica, quando i consumi eccessivi ci fanno rischiare l’obesità. La seconda è una dieta forzata che può condurre alla morte per inedia. L’abbiamo detto e ripetuto a iosa: non vi può essere nulla di peggio di una società della crescita che non cresce. Basta un rallentamento della crescita per gettare le nostre società nello sgomento, davanti alla disoccupazione, al divario sempre maggiore  tra ricchi e poveri, all’erosione del potere d’acquisto delle fasce economicamente più deboli e all’abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può dunque immaginare a quale catastrofe porterebbe un tasso di crescita negativo. Ora, se non cambiarne traiettoria è precisamente questo regresso che incombe, in termini sociali e di civiltà.
Già nel 1974, in una conferenza dal titolo: La loro ecologia e la nostra, André Gorz scriveva: “Questo calo della crescita e della produzione, che in un altro sistema potrebbe essere un bene (meno automobili, meno rumori, aria più respirabile, giornate di lavoro più brevi eccetera) avrà invece effetti totalmente negativi: le produzioni inquinanti diverranno beni di lusso, inaccessibili alle masse, ma resteranno alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze cresceranno, i poveri diventeranno relativamente più poveri e i ricchi più ricchi”.
Purtroppo la fine del petrolio non è necessariamente la fine del capitalismo, e neppure quella della società della crescita. Anche in condizioni di grande scarsità di risorse naturali, dissesto climatico eccetera l’economia capitalista potrebbe ancora funzionare; in questo hanno in parte ragione coloro che difendono lo sviluppo sostenibile e il capitalismo dell’immateriale. Le imprese (o quanto meno parte di esse) potrebbero continuare a espandersi e a incrementare il loro fatturato e i loro profitti, mentre le carestie, le pandemie e le guerre sterminerebbero nove decimi dell’umanità. Il valore delle risorse sempre più scarse aumenterebbe in misura più che proporzionale.
Quando il petrolio scarseggia la salute delle compagnie petrolifere non ne soffre, al contrario. Se la stessa cosa non vale per la pesca è perché esistono succedanei il cui prezzo non può crescere in misura proporzionale alla scarsità del pesce. La sostanza dei consumi diminuirà, mentre il loro valore continuerà ad aumentare.
La decrescita è concepibile solo nel quadro di un sistema fondato su una logica diversa: quella di una “società della decrescita”. Di fatto, l’alternativa è: decrescita o barbarie. Tutto ciò era perfettamente prevedibile, ed è stato infatti annunciato. Gli avvertimenti del Club di Roma sono stati per lo più respinti da chi non li aveva letti e ancor meno compresi. Certo, si può essere scettici sui lavori dei futurologi, ma quelli del Club di Roma hanno il merito di essere infinitamente più seri e solidi delle abituali proiezioni su cui si fondano i nostri governanti o le varie istanze internazionali. Tutti gliscenari ­ tranne quello fondato sulla “fede nella cornucopia” rimettono in discussione i fondamentali della società della crescita, finiscono per condurre al tracollo. Che nel primo scenario avverrà verso il 2030, per via della crisi delle risorse non rinnovabili; nel secondo intorno al 2040, in conseguenza dell’inquinamento; e nel terzo si farà attendere fino al 2070 e sarà provocato dalla crisi alimentare. Gli altri scenari sono varianti dei tre sopra descritti. Uno solo – il nono – è a un tempo credibile e sostenibile: quello della sobrietà, che corrisponde ai fondamentali della via della decrescita.
In una società “sobria per scelta”, come quella proposta dal movimento degli obiettori di crescita, si lavorerà di meno per vivere meglio; si consumerà meno ma meglio; si produrranno meno rifiuti e si riciclerà di più. Si tratta, in breve, di ritrovare il senso della misura e di un’impronta ecologica sostenibile; di inventarsi la felicità nella convivialità piuttosto che nell’accumulazione frenetica. Tutto ciò presuppone una seria decolonizzazione del nostro immaginario; e in questo le circostanze possono esserci d’aiuto. Certo, come dicono i drogati del sistema, non andremo più in ferie alle Seychelles. E dovremo farcene una ragione. Ci siamo lasciati alle spalle l’età dell’oro del consumismo chilometrico. Persino un giornale ortodosso come il Financial Times riconosce che “il turismo sarà sempre più considerato come il nemico pubblico numero uno dell’ambiente a livello mondiale”. Indubbiamente, il desiderio di viaggiare e il gusto dell’avventura sono connaturati all’animo umano, ma dalla legittima curiosità, dall’esplorazione educativa si è passati alla mercificazione consumistica, distruttiva per l’ambiente non meno che per la cultura e il tessuto sociale dei Paesi target dell’industria turistica.
Siamo arrivati, per dirla con Woody Allen, a un bivio decisivo: una via conduce all’estinzione della specie, l’altra alla disperazione. E aggiunge:  “Spero che sapremo fare la scelta giusta…”. La prima via è quella che stiamo seguendo. La seconda è la crescita negativa, generatrice di carestie, guerre, pandemie. La decrescita rappresenta una terza via, quella della sobrietà per scelta. Per questo abbiamo bisogno di inventare un altro modo di rapportarci al mondo, alla natura, alle cose e agli esseri, che avrà la caratteristica di poter essere universalizzato su scala dell’umanità. Le società capaci di autolimitare la propria capacità produttiva sono anche società gioiose.
Traduzione di Elisabetta Horvat

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