[da Quando suona la campanella. Racconti di scuola, a cura di Piero Castello e altri, manifestolibri, Roma 2006]
Lo chiamo per cognome e lui si arrabbia. Sbatte sul banco un lettore cidi portatile. Lo percuote con violenza. Gli chiedo se è suo. È progettato fabbricato assemblato in qualche paese del Sud-Est Asiatico o dell’Estremo Oriente. È un regalo, è sua proprietà, ne fa quello che vuole.
«Qui sei in Italia, non sei in Pakistan», gli dice una compagna di classe. E nata in Romania, vive in Italia da un paio di mesi.
Lui è nato in Marocco.
«A scuola, in Marocco, gli alunni sono educati a rispettare le regole», dice l’insegnante alla ragazza.
«Non sono andato a scuola in Marocco», risponde il ragazzo.
Per chi parla italiano il cognome del padre suona sinistro. Un criminale da fumetti, una perversione del desiderio, il lato oscuro dell’illuminismo, una volontà di dominio che viviseziona i corpi, che sevizia la natura. Gli chiedo se posso chiamarlo per nome. Preferisce di no. Lui, come me, non ha un nome di battesimo. Non vuole essere chiamato col nome del Profeta, preferisce un nome alterato, il nomignolo del personaggio defunto di una novella di Pirandello che non ha letto. Bestemmia spesso, ma in mensa non mangia carne di maiale, come me, che sono vegetariano, e come la madre di mia madre, che era di religione cattolica,
Perché mi fissa? Che cosa vuole? Sei un essere inutile, ti aspetto fuori, ti accoltello. Lo ha detto in palestra a una compagna di classe. Gli altri alunni l’hanno difesa. Lui non la chiama per nome, per lui è solo la pakistana – non è proprio così, ma certi giorni ci tiene a farmelo credere. In palestra lei resta seduta, guarda gli altri, aiuta l’insegnante. D’inverno copre la testa con un panno marrone, a primavera con veli fioriti, da cui traspare la chioma raccolta e tracima una lunga treccia nera.
Una volta, mentre disegnava, il ragazzo si è bendato un occhio. Sulla benda nera da pirata c’era una croce celtica. Gli dico che nel 1986 in Inghilterra un mio amico algerino è stato picchiato da un uomo con la testa rasata che aveva quella croce tatuata su un braccio. Risponde che la benda non è sua, gliel’ha prestata un ragazzo di un’altra classe. Una compagna gli dice:
«Sei un deficiente».
Una mattina si siede accanto a me, in corridoio: «Io so quando una cosa è sbagliata, ma poi la faccio lo stesso. Forse dovrei andare dallo psicologo».
Un racconto americano, il demone della perversità, l’autocoscienza ci guida alle urne. Non gli dico che per certi adulti la consapevolezza del male – disincantata, cinica, religiosa, gaia, sofferta, umoristica, lacrimosa – è un surrogato della scelta politica. Non importa se recita una parte: lo rassicuro, gli dico che capire i propri errori è un primo passo. Poi bisogna camminare – ma se chiederà il mio aiuto non potrò accompagnarlo.
Dovrei provare a spiegargli: le regole si possono cambiare, ma si deve rispettare il prossimo; chi non sa perché si ribella non si ribella contro i veri nemici; chi non riesce a obbedire non riesce neanche a disobbedire; esiste la disciplina del lavoro forzato, la disciplina di un esercito, ma anche la disciplina di chi persegue una meta. Lui gioca a calcio, io non sono il suo allenatore. Se mi lascerà il tempo, gli racconterò una parabola, una leggenda, una storia da calendario. Gli racconterò un apologo sulla libertà della piuma e la libertà del passero, o magari la vita di un calciatore brasiliano, campione del mondo, nato in una favela, un calciatore che con le sue finte astruse riusciva a dribblare facilmente l’avversario – lo dribblava perché era tenace, perché aveva talento, perché da bambino era rimasto segnato dalla poliomielite.
Mi chiede se è vero che un suo compagno di classe è matto: durante l’intervallo cammina avanti e indietro vicino alla porta finestra, e due inverni fa, in prima media, si metteva in un angolo a borbottare da solo. Viene dal Pakistan, ha compiuto sedici anni, è sordo, ha perso la madre quando è venuto al mondo.
Fino a cinque anni fa, prima d’arrivare in Italia, non portava un apparecchio acustico: non sapeva leggere e scrivere. Non sapeva nemmeno parlare.
«A scuola ormai ci vogliono gli psichiatri e i carabinieri», dice un bidello.
«Io sono un domatore», gli risponde un insegnante.
C’è un ragazzo che non si riesce a domare. Ha tredici anni, vive in una casa famiglia. Con i coetanei non è troppo aggressivo, di solito. E stato sospeso perché ha bruciato una ciocca di capelli a una compagna. Disturba le lezioni, esce dalla sua classe, gira per la scuola, entra nelle altre aule. Promette che siederà in silenzio, che resterà solo per dieci minuti, ma poi interrompe le lezioni: parla con gli amici, gioca con una palla di carta, rovista negli astucci, prende in prestito un pennarello, toglie una scarpa a una ragazza e fugge dalla porta finestra, corre intorno alla scuola inseguito da un’insegnante. Se appoggi una mano sulla sua spalla, quando gli chiedi con durezza di tornare nella sua classe, ti risponde: «Non mettermi le mani addosso». Minaccia di bruciarti l’auto. Se alzi la voce per sgridarlo, abbaia. Se gli chiedi cosa farà da grande, ti risponde che farà il magnaccia.
«A scuola sono stato già abbastanza. So parlare, ascoltare, leggere e scrivere». Gli obiettivi didattici sono stati raggiunti. Potrà prendere la patente. Sarà rieducato dalla televisione. Qui e ora vuole fare ciò che vuole: tutto quello che a scuola è proibito, tutto quello che non è punito dal carcere. La sua coscienza ha la forma della galera di altri corpi.
La scuola ha assunto un «mediatore culturale». Il mediatore culturale gli parla in italiano. È un uomo mite, ragionevole, calmo. Non media tra culture di paesi diversi, media tra un corpo umano e il mondo. Deve stargli accanto, in classe; seguirlo quando gira per la scuola. Lo marca stretto e a distanza. Deve controllare e persuadere. Il mediatore culturale ha un accento straniero, il ragazzo no. Sono nati nella stessa città.
Fuori dalla scuola c’è un’auto dei carabinieri. Qualcuno è andato a scuola tra sabato sera e lunedì mattina. Da tempo si sapeva che una porta finestra era difettosa. Oggi la scuola resterà chiusa. Dentro all’edificio vetri rotti e incrinati, armadi e scaffali rovesciati, la macchina del caffè scassata, sui muri un paio di scritte contro gli insegnanti e una croce celtica, la porta di un’aula sgangherata. Una traccia di sangue, mozziconi di sigaretta – la marca americana, il pacchetto rigido e azzurro che si trova più spesso nelle aiuole del cortile della scuola o sui prati del parco pubblico, nelle stradine che lo circondano e lo attraversano, o tra l’erba pesta, nel fango, vicino alle panchine. Senza ulteriori analisi, senza analisi accurate, recito a me stesso, non è una prova. Sui banchi di un’aula, lattine d’alluminio, bottiglie di plastica, cartoni di pizze d’asporto – come nei fossi che scolano l’acqua piovana tra i campi e l’asfalto della strada provinciale. Ufficiali di polizia in borghese ascoltano i bidelli, la vicepresidc, il dirigente.
Si raccolgono i reperti, per le analisi o per il bidone dell’immondizia. Un carabiniere in divisa fotografa i danni e lascia la confezione del rullino sul muretto di cemento che incornicia una piccola aiuola. Le forze dell’ordine se ne vanno.
Giro per la scuola, scopro che mancano due estintori. Non hanno avuto pietà. Senza futuro non c’è memoria. Con gli estintori hanno rotto i vetri, hanno forzato la macchina del caffè – ma da sabato sera a lunedì mattina i soldi non ci sono. Guardo nei bidoni vicini alla scuola. Sono stati già svuotati, gli estintori non ci sono. Sono un trofeo, un bottino di guerra; o giacciono in altri bidoni; o sono già macinati e pressati con altri rifiuti. Un uomo di mezza età, un padre di famiglia con la carnagione molto scura, mi vede scrutare l’intemo di un bidone. Sgrana gli occhi, forse mi immagina un poliziotto che cerca una bomba, o un mendicante. Gli rivolgo uno sguardo che lo preoccupa. Giovane mendicante italiano odia medico brizzolato con la pelle scura.
La scuola viene riordinata, riaprirà il giorno dopo. Gli alunni saranno invitati a esprimere sentimenti e impressioni; a considerare quanto spenderà il Comune o lo Stato o la Repubblica per riparare i danni; a immaginare quelle cose che il Comune o lo Stato o la Repubblica con quei soldi, con i soldi di tutti, avrebbero potuto comprare per tutti. Non voglio, non posso leggere una certa poesia di Primo Levi; dovrei conoscerli da anni, avere il tempo per verificare la comprensione e l’effetto delle mie parole. Nella poesia si accenna a uno stupro. Non voglio che quelle parole siano masticate assieme alle soap televisive che all’ora di cena esibiscono stupri e successive gravidanze. Se non posso permettermi digressioni, devo tradurre, devo scegliere altre parole.
Chi non sa creare nulla, per esistere, per essere qualcuno, distrugge. Vedo che la ragazza rumena approva. Non riesco a dire che una parte di questo mondo dovrebbe essere distrutta. Che davvero alcuni uomini e alcune donne per essere più umani dovrebbero distruggere. Non lo dico perché è rischioso, perché è difficile spiegarlo, perché bisogna misurare le parole e scegliere il momento giusto. L’insegnante di sostegno non ha l’autorità, l’insegnante precario non ha il tempo. L’insegnante è adulto e loro non hanno l’età giusta — loro in massa, non uno per volta; questa classe, non un’altra classe. Sono stati formati da gesti scambi incontri relazioni immagini suoni parole che mi tolgono la parola, che qui e ora mi inducono a tacere. Se parlassi di distruzione; dovrei aggiungere troppe parole. Direi quello che Aleksandr Blok scrisse in una lettera mai spedita a Majakovskij. La distruzione è vecchia e tradizionale come la costruzione; distruggendo restiamo schiavi del vecchio mondo; ognuno resterà uno schiavo finché non appaia un terzo elemento, qualcosa di diverso dalla costruzione e dalla distruzione.
Un ragazzo mi informa che girano voci. Non fa i nomi, con me, ma si confida. Mi mostra la via d’accesso, la botola segreta dei minuscoli distruttori. Pare che i colpevoli non siano alunni della scuola. Sono ragazzi più grandi, che l’hanno frequentata alcuni anni fa. Sono entrati domenica, prima dell’alba. Sabato sera, invece, sarebbero entrati alcuni alunni della scuola: «Non per fare danni, solo per mangiare la pizza e bere una birra».
E così sia – anche per noi. Sabato sera anche noi ceneremo fuori. Mangeremo una pizza, berremo una birra, parleremo dei figli, ci lamenteremo dei tempi e degli uomini, andremo a dormire. Volgeremo il capo, non guarderemo in faccia quelli che ci guardano al buio. La storia morderà nel sonno. Verrà un’altra domenica mattina: forse sarà una domenica felice, ma non saranno altri tempi. Non sarà la vita che non sappiamo vivere e la verità che non sappiamo cedere. E dormiremo ancora, finché non appaia un terzo elemento.