ARTHUR CONAN DOYLE Le deduzioni di Sherlock Holmes

Nel caso narrato nel romanzo Uno studio in rosso (1827) Sherlock Holmes è stato chiamato a investigare sull’omicidio di Enoch J. Drebber. Dopo che, grazie alle indagini dell’acuto investigatore, il colpevole, Jefferson Hope, è stato catturato e ha reso piena confessione — si era voluto vendicare dell’ignobile Drebber che, vent’anni prima, gli aveva rapito la fidanzata e, obbligandola a sposarlo, l’aveva fatta morire di dolore — il lettore, cosi come il dottor Watson, non è ancora soddisfatto: in quale modo Sherlock Holmes è riuscito a risolvere l’enigma? I vari indizi devono essere messi in ordine e spiegati ed è quanto si appresta a fare il detective, con quel pizzico di compiacimento che gli è proprio.

Eravamo citati a comparire dinanzi ai magistrati il mercoledì mattina. Ma quando giunse il mercoledì non c’era più bisogno che andassimo a testimoniare.
Un più alto giudice era intervenuto, e Jefferson Hope era stato chiamato al cospetto di un tribunale che l’avrebbe giudicato secondo la più rigida giustizia.
La notte stessa dopo la sua cattura, il suo aneurisma si era rotto e, la mattina, Hope era stato rinvenuto steso sul pavimento della cella, con un sorriso placido sulle labbra, come se nei suoi ultimi istanti fosse riuscito a riandare mentalmente a una vita utile e a una missione compiuta.
«Gregson e Lestrade erano furibondi per la sua morte» osservò Holmes, mentre ne parlavamo, la sera successiva. «Dove se ne va a finire la loro grande pubblicità?»
«Non vedo quale contributo abbiano dato alla cattura di Hope» ribattei.
«A questo mondo, non conta quello che si è fatto» soggiunse il mio compagno, con una certa amarezza «conta piuttosto quel che si riesce a far credere alla gente di aver fatto. Ma che importa?» prosegui rasserenato, dopo una pausa. «Per nessuna cosa al mondo avrei voluto rinunciare a quell’indagine. Che io ricordi, c’è stato raramente un caso più interessante. Per quanto semplice, aveva alcuni punti molto istruttivi».
«Semplice!» esclamai.
«Be’, insomma, non si può descriverlo altrimenti» disse Sherlock Holmes sorridendo della mia meraviglia. «La prova della sua intrinseca semplicità è che, con il solo aiuto di qualche banale deduzione, sono riuscito a mettere la mano sul colpevole nel giro di tre giorni».
«È vero» ammisi.
«Le ho già spiegato che le circostanze fuori dal comune, di solito, rappresentano una guida anziché un ostacolo. Nel risolvere un problema di questo genere, l’essenziale è saper ragionare a ritroso. È una tattica utile e saggia, ma pochi se ne servono, forse perché, nella vita di ogni giorno, è più pratico far seguire al ragionamento la direzione del tempo. Ci sono cinquanta persone che sanno ragionare sinteticamente contro una sola che sa ragionare analiticamente».
«Confesso che non capisco bene» dissi.
«Me l’aspettavo. Vediamo un po’ se posso chiarire il mio concetto. Se lei descrive una certa sequela di eventi, gli ascoltatori, per la maggior parte, le diranno quali potrebbero essere le conseguenze degli eventi stessi. Sono capaci di mettere assieme mentalmente le circostanze e di arguire quello che accadrà in seguito. Ben poche, viceversa, sono le persone che, venendo a conoscenza di un fatto, riescono a dedurne le circostanze che l’hanno provocato. A questa facoltà alludo, quando parlo di ragionamento a ritroso o analitico».
«Ora capisco» mormorai.
«Questo, per esempio, era un caso in cui ci trovavamo al cospetto delle conseguenze, e dovevamo quindi risalire alle origini. Ora, permetta che esponga il mio ragionamento. Cominciamo-dal principio: come sa, mi sono avvicinato a quella casa con la mente sgombra da ogni preconcetto. Naturalmente ho cominciato con l’esaminare le strade e, come già le ho spiegato, ho visto le tracce lasciate da una carrozza. Assumendo informazioni, ho accertato che doveva essere stata là durante la notte. Inoltre ho capito che si trattava di una carrozza pubblica e non privata, a causa della carreggiata stretta. II comune cab londinese è assai più stretto di quanto non Io siano, normalmente, le vetture private. Era un primo punto chiarito. Ho percorso, poi, il sentiero del giardino in cui il terreno argilloso sembrava fatto apposta per ritenere impronte e orme […]. Ho riconosciuto le orme profonde dei poliziotti, ma anche le tracce lasciate da due uomini che erano passati per primi attraverso il giardino. Mi è stato facile capire che erano precedenti perché, in certi punti, erano del tutto cancellate dalle altre che si erano sovrapposte. In tal modo ho fabbricato il secondo anello della catena: i visitatori notturni erano stati due, uno di statura notevole (come ho calcolato dalla lunghezza del passo) e l’altro vestito con ricercatezza, a giudicare dalla forma slanciata ed elegante delle sue scarpe.
Entrato in casa ho avuto subito la conferma di questa mia ultima deduzione. L’uomo dalle scarpe eleganti giaceva là, davanti a me. Dunque, quello alto aveva commesso il delitto, se di delitto si trattava. Non c’era ferita di sorta sul cadavere, ma l’espressione stravolta della sua faccia mi diceva che lui aveva previsto almeno un istante prima ciò che la sorte gli riservava. I lineamenti di chi muore per paralisi cardiaca e, comunque, per un’improvvisa causa naturale non tradiscono mai sgomento o agitazione. Fiutando le labbra del morto, ho percepito un lieve odore amarognolo e ho concluso che Io sconosciuto era stato costretto a ingerire un veleno, il che spiegava l’odio e il terrore impressi sul suo viso. Per esclusione ero giunto a questo risultato, poiché nessun’altra ipotesi si adattava ai fatti. E ora veniamo al problema centrale: il motivo. Il furto non doveva essere stato il movente del delitto, poiché sembrava che nulla fosse stato sottratto al morto. Si trattava di politica, allora, oppure c’era di mezzo una donna? Ecco il dilemma nel quale mi trovavo. Fin dal principio ho avuto una certa propensione per la seconda ipotesi. Chi commette un assassinio politico è ben contento di fare il colpo e di svignarsela. Questo assassino, invece aveva agito con fredda deliberazione e aveva lasciato le proprie impronte per tutta la stanza, dimostrando di avere sostato a lungo. Doveva trattarsi di una bega privata e non politica, per richiedere una vendetta così metodica.
Quando si è scoperta l’iscrizione sul muro, la mia opinione non ha fatto che rafforzarsi. Quello era un trucco troppo palese. Quando poi si è trovato l’anello, non ho più avuto dubbi. Evidentemente l’assassino se n’era servito per ricordare alla vittima una donna morta oppure lontana […]. Allora ho compiuto un esame minuzioso della stanza, avvalorando così la mia opinione riguardo alla statura dell’assassino e scoprendo altri due particolari: quello del sigaro TrichinopoIy e la lunghezza delle unghie del colpevole. In mancanza di tracce di lotta, avevo già concluso che il sangue sparso sul pavimento proveniva dal naso dell’assassino. Nei momenti di tensione forte simili emorragie non sono rare, soprattutto in un uomo sanguigno. Ecco perché ho osato affermare che il delinquente, con tutta probabilità, era un uomo robusto, dal colorito florido […]. Uscito dalla casa, […] ho mandato un telegramma al capo della polizia di Cleveland […]. Ho saputo così che Drebber aveva già chiesto la protezione della legge contro un antico rivale in amore, di nome Jefferson Hope, e che lo stesso Hope doveva trovarsi in Europa. Ormai, sapevo di avere in pugno le fila del mistero. Non restava che acciuffare l’assassino.
Si era già radicata in me la convinzione che l’uomo con cui Drebber era entrato nella casa non era altro che il cocchiere della carrozza. Le tracce sulla strada dimostravano che il cavallo si era mosso come non avrebbe mai potuto fare se ci fosse stato qualcuno a custodirlo. Dove poteva essere, dunque, il cocchiere, se non nella casa? Del resto, è assurdo supporre che un uomo (a meno che non sia pazzo) commetta un assassinio, quasi sotto gli occhi di una terza persona che facilmente potrebbe tradirlo […].
Allora ho organizzato la squadra mobile dei monelli e li ho sguinzagliati con l’ordine di indagare sistematicamente in tutte le rimesse di carrozze pubbliche, fino a quando non avessero individuato l’uomo che cercavo. Non ho bisogno di aggiungere che la manovra è riuscita e che io non ho tardato a trarne profitto. L’assassinio di Stangerson è stato un’appendice inaspettata, ma in ogni caso sarebbe stato ben difficile impedirlo. Attraverso il secondo delitto, come ben sa, sono entrato in possesso delle pillole di cui avevo già sospettato l’esistenza. Capisce? Tutta la faccenda è una catena di fatti logicamente collegati, senza vuoti né soluzioni di continuità?».
«È meraviglioso!» esclamai. «I suoi meriti dovrebbero essere universalmente riconosciuti. Lei stesso dovrebbe pubblicare un resoconto del “caso”. E se non lo fa, lo faccio io».

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