da «Alice nel paese delle meraviglie», traduzione di Aldo Busi
La tana per un po’ era dritta come una galleria, poi virò improvvisamente a muso ingiù ma così improvvisamente che Alice non ebbe neppure il tempo di frenare: si trovò ribaltata a gambe all’aria, giù per un pozzo che sembrava senza fine.
O il pozzo era molto profondo o lei stava precipitando molto lentamente, dato che, durante la discesa, aveva tutto il tempo di guardarsi attorno e di chiedersi: “E subito dopo di adesso che succederà?” Dapprima cercò di guardare giù per vedere dove mai sarebbe finita, ma faceva troppo buio per distinguere checchessia, poi spostò lo sguardo verso le pareti del pozzo e si accorse che erano piene di armadietti e di scaffali, qui e là vide delle carte geografiche e dei quadri trattenuti da mollette per il bucato. Seguitando a cadere, riuscì a tirar giù al volo un barattolo da una delle scansie; sull’etichetta c’era scritto “MARMELLATA D’ARANCE”, ma con suo grande disappunto era vuoto: non le andava di lasciar cadere il barattolo per il timore di uccidere qualcuno, e così fece in modo di riporlo in uno degli armadietti che precipitava accanto a lei.
“Benone!” si disse Alice. “Dopo una caduta come questa, cosa vuoi che sia un capitombolo giù dalle scale? Che figura coraggiosa che farò a casa! Ah sì, non mi scapperebbe un lamento nemmeno se mi cascasse il mondo addosso!” (per forza, con tutta quella terra in bocca!)
Giù, giù, giù. Avrebbe mai finito di cadere? “Chissà quanti chilometri è che sto cadendo!” disse a voce alta. “Starò avvicinandomi più o meno al centro della terra. Vediamo un po’: dovrebbe fare un seimila chilometri e qualche di profondità, penso…” (giacché, dovete sapere, Alice aveva imparato molte cose del genere durante le lezioni a scuola, e benché questa non fosse l’occasione più adatta per far sfoggio di cultura, dato che il pubblico era scarsino, tuttavia era sempre il momento buono per fare un po’ di ripasso) “… sì, dovrebbe essere la distanza esatta… ma allora chissà a quale Latitudine o Longitudine mi trovo!” (Alice non aveva la minima idea ne sulla Latitudine ne sulla Longitudine, ma erano pur sempre dei gran bei paroloni da tenere pronti.)
A questo punto riattaccò: “Chissà se sto attraversando tutta la terra! Che numero sbucare fra quella folla di gente che cammina a testa in giù! Tantipodi, se non erro…” (Stavolta fu abbastanza contenta che non ci fosse nessuno a ascoltarla, questa parola non le appagava l’orecchio) “… ma dovrò chiedergli il nome del paese, naturalmente. Scusi, signora, qui siamo in Nuova Zelanda o in Australia?” (e mentre parlottava cercò di fare la riverenza — figurati, fare la riverenza intanto che stai precipitando nel vuoto! Credete di esserne capaci voi?) “Penserà che io sia una paesanella ignorante! No, non sarà proprio il caso di far domande: ci sarà pure un cartello stradale da qualche parte”.
Giù, giù, giù. Non c’era nient’altro da fare, così Alice riprese subito a parlottare: “Dinah sentirà la mia mancanza stasera, e tanto, credo!” (Dinah era la gatta.) “Spero che si ricorderanno del suo piattino di latte all’ora del tè. Cara la mia Dinah, come vorrei che tu fossi quaggiù con me! Non c’è ombra di topi qui in giro, ma potresti prendere un pipistrello, che se non lo sai è quasi uguale a un topo. Chissà se i gatti ne van matti”. E a questo punto Alice cominciò a avere sonno e, come se stesse sognando, continuava a ripetersi: “I gatti ne van matti? I gatti ne van matti?” o anche: “I matti van matti? I matti van a gatti?” poiché, visto che non sapeva dare una risposta a nessuna delle due domande, non contava molto chi andava matto di chi. Sentì che le si stavano chiudendo gli occhi e aveva appena cominciato a sognare di stare mano nella zampa di Dinah e di dirle, con la massima serietà: “E adesso, Dinah, dimmi la verità: l’hai mai mangiato un pipistrello?”, quando improvvisamente, patapluff! era finita sopra un mucchio di foglie secche. Fine della caduta.