MARK HERTSGAARD Che brutto clima

[“l’Espresso”, 19 novembre 2009]

Si sono messi d’accordo la Ue, il Brasile, l’Africa e il Giappone. Ma al summit Onu di Copenhagen la resistenza di Cina e Usa impedirà l’atteso accordo sulla riduzione delle emissioni mondiali

I diplomatici che hanno dedicato gli ultimi due anni a negoziare un nuovo trattato sul cambiamento climatico, da sottoscrivere al summit dell’Onu sul clima a Copenhagen nel dicembre prossimo, si sono riuniti a Barcellona all’inizio di novembre. Rappresentando quasi tutti i paesi del mondo, hanno dovuto fare i conti con profonde divergenze tra i governi o, peggio ancora, col fatto che molte delle misure proposte non si avvicinano ai minimi sollecitati dagli scienziati. «Abbiamo il piede incollato sull’acceleratore e siamo diretti verso un abisso», ha dichiarato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon.
Nonostante l’impegno di Ban Ki-Moon, che continua a battersi perché una serie di punti legalmente vincolanti vengano comunque approvati a Copenhagen (come gli obiettivi di riduzione di CO2 di medio periodo per i paesi sviluppati; il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo e delle regole di governance globale sulla gestione dell’innovazione ambientale), certo non è incoraggiante il risultato dell’incontro del Forum per la Cooperazione economica tra Asia e Pacifico dello scorso 15 novembre. Dell’Apec sono membri tre tra i maggiori inquinatori per emissioni di gas serra del mondo – Cina, Stati Uniti e Indonesia – oltre a Giappone e India. I leader dell’Apec, nel comunicato finale non considerano realistico un accordo legalmente vincolante a Copenhagen, ma sostengono la proposta del primo ministro danese Lars Lokke Rasmussen, arrivato a Singapore con un compromesso politico nel tentativo di evitare il fallimento di Copenhagen. Ma Obama, dopo il colloquio faccia a faccia con il presidente cinese Hu Jintao, è tornato sui suoi passi annunciando di desiderare che a Copenhagen sia raggiunto un accordo vincolante «che copra tutti i temi del negoziato e che abbia effetti immediati».
Se il cambiamento climatico fosse assimilabile al commercio mondiale o ai diritti umani, la proposta di Obama sarebbe già un passo in avanti. Il problema è che l’atmosfera terrestre non consente di seguire le regole abituali del compromesso politico. La Commissione intergovernativa dell’Onu sul cambiamento climatico avverte che dopo le punte massime che potrebbero toccarsi entro il 2015 le emissioni globali di gas serra dovranno ridursi di un 25-40 per cento entro il 2020 e quasi allo zero entro il 2050. Secondo gli esperti di clima, queste riduzioni permetterebbero di limitare l’aumento della temperatura globale a 2° C al di sopra dei livelli pre-industriali. I 2° C non sono affatto una soglia sicura. Già oggi un innalzamento di 1° C della temperatura sta causando lo scioglimento dei ghiacciai del mondo e delle calotte polari con un chiaro impatto ai danni delle terre coltivabili nel Bangladesh e in altri paesi situati al livello del mare o sotto. In ogni caso, e questa è la speranza degli scienziati, il target di 2° C potrebbe evitare che il cambiamento climatico tocchi livelli catastrofici, tra cui, per esempio, una siccità quasi permanente in Italia e in altri paesi del Mediterraneo. La triste ironia è che sappiamo bene in parte ciò che deve essere fatto.
Negli Stati Uniti, Al Gore ha pubblicato un nuovo libro, “Our Choice” (La nostra scelta), che spiega in maniera esauriente le molte soluzioni che la tecnologia mette a disposizione in questo campo. Un primo passo essenziale è un uso efficiente dell’energia e dell’acqua, ossia meno sprechi. Gore è anche ottimista sulle energie eolica, solare e geotermica, così come sui metodi non dannosi nell’agricoltura e nella silvicoltura.
Gli ostacoli alle soluzioni per il cambiamento climatico non sono mai stati tecnologici ma politici ed economici. Basti ricordare il summit del 1992 a Rio de Janeiro, il più grande incontro tra capi di Stato e di governo della storia e la prima volta che a questi livelli è stato affrontato il problema del clima. Le dinamiche del potere che impedirono allora di fare dei passi avanti sono le stesse che bloccano il processo odierno con un deplorevole analogo risultato. Durante la sua presidenza, nel 1992, Bush (come oggi Obama) si rifiutò di ridurre le emissioni in maniera significativa, nonostante gli Stati Uniti fossero storicamente di gran lunga il principale inquinatore del clima. La resistenza degli Usa, a sua volta, permette ad altri paesi di dimostrare poco entusiasmo sulla riduzione delle proprie emissioni. Analogamente, quanto detto allora dai paesi in via di sviluppo è identico a ciò che stanno dicendo adesso alla vigilia di Copenhagen: hanno bisogno di uscire dalla povertà è questo rende per loro impossibile rinunciare a bruciare combustibili fossili o a tagliare le foreste. Per scegliere alternative più verdi, dovrebbero ricevere dei contributi economici dai paesi più ricchi, contributi che tuttavia non sono elargiti o, in ogni caso, non nella misura richiesta. Le prospettive non sono però del tutto grigie.
L’Unione europea ha promesso di ridurre unilateralmente le proprie emissioni del 20 per cento entro il 2020 e del 30 per cento se altri – gli Usa – faranno lo stesso. La Ue ha anche deciso di fornire ai paesi in via di sviluppo delle risorse per miliardi di dollari l’anno in aiuti sia per l’implementazione di tecnologie che salvaguardino l’ambiente sia per permettere loro di arginare le conseguenze dell’impatto delle emergenze climatiche che stanno già colpendo, per primi e con una forza più devastante, i paesi poveri. Il Giappone si è impegnato a ridurre le emissioni del 25 per cento entro il 2020, ma anche qui, se altri faranno altrettanto. Il Brasile è il primo paese in via di sviluppo che si è impegnato a ridurre le proprie emissioni del 36 per cento entro il 2020 e ciò per buona parte limitando la deforestazione nell’Amazzonia.
Anche dall’India e, in particolare dalla Cina arrivano segnali di speranza. In un discorso all’Onu, il presidente cinese Hu Jintao ha fatto un passo più in là dei suoi predecessori impegnandosi a ridurre la crescita delle emissioni cinesi «per una quota significativa». Più recalcitranti di tutti appaiono gli Usa o, più precisamente, il Congresso americano. Il presidente Obama comprende la gravità della minaccia climatica, ma il Congresso continua a porre ostacoli. La normativa in discussione a Capitol Hill prevede una irrisoria riduzione delle emissioni del 3 per cento entro il 2020, eppure la Camera dei rappresentanti l’ha approvata con un margine di appena otto voti e non è affatto detto che passi al Senato. A tutto ciò si aggiunge il fatto che qualsiasi trattato per il clima concordato tra i partecipanti a Copenhagen richiederebbe una successiva ratifica da parte del Senato Usa per diventare legge. Questa ratifica prevede al Senato una maggioranza qualificata: 67 senatori su 100. Ne consegue che bastano 34 senatori per bloccare un qualsiasi trattato. I repubblicani, che al Senato contano su 38 seggi, sono quasi unanimemente contrari a considerare la questione del cambiamento climatico un problema reale. Inoltre, anche tra i democratici, e in particolare tra i rappresentanti degli Stati carboniferi e petroliferi, c’è chi si oppone a vaste riduzioni delle emissioni di gas serra. Quindi, anche se Obama sottoscrivesse un trattato per il clima contenente riduzioni tra il 25 e il 40 per cento entro il 2020, il minimo necessario secondo gli esperti, tale trattato non supererebbe Capitol Hill. Appare una follia che il successo del summit sul clima in programma a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre sia ostaggio di una piccola minoranza di destra a Washington.
Non sappiamo se Obama abbia già individuato una soluzione per contrastare questa situazione, ma ha fatto intendere che sarà presente al vertice di Copenhagen, presumibilmente abbinando questa partecipazione al viaggio a Oslo, dove si recherà il 10 dicembre per ritirare il Premio Nobel per la Pace. «Obama riceverà il premio Nobel nella seconda settimana di dicembre», ha annunciato Christopher Flavin, presidente del World Watch Institute a Washington: «Ma quello che farà nella terza settimana del mese ci dimostrerà se lo merita».
(traduzione di Guiomar Parada)

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