Da «Secretum», libro III
Francesco: Almeno questo (sia da ascrivere a gratitudine o a sciocchezza) non voglio tacere: che quel poco che mi vedi, sono per essa; né sarei mai giunto a questo grado, qual che si sia, di nominanza e di gloria, se la tenuissima semente di virtù, che la natura aveva sparso in questo patto, non avesse ella con nobilissimi sentimenti educata. Ella distolse l’animo mio giovinetto da ogni lordura, e lo ritrasse, come si dice, con l’uncino, e lo spinse a mirare in alto. Come non mi sarei trasformato secondo i costumi dell’amata? E per vero non si è trovato mai un maligno così mordace, che toccasse con lacerante dente la fama di lei; che osasse affermare d’avere scorto, non dico negli atti suoi, ma pure in un gesto o in una parola, alcun che di riprensibile, sicché coloro che nulla avevano lasciato intatto, lei risparmiarono ammirati e reverenti. Non è punto strano, dunque, se codesta così alta fama indusse anche in me il desiderio d’una fama più chiara; se attenuò le durissime fatiche con le quali conseguire il vagheggiato intento. Da giovane infatti non altro desideravo che di piacere a lei, proprio a lei sola, che proprio sola a me era piaciuta; e per riuscire a ciò, rinunciando alle lusinghe di mille piaceri, tu ben sai a quanti affanni anzi tempo mi sottoponessi e a quante fatiche. E mi comandi di dimenticare o d’amare più tiepidamente colei che mi ha allontanato dalla schiera volgare; che, essendomi di guida per ogni cammino, mi ha spronato il torpido ingegno e mi ha destato l’animo semisopito?
Agostino: Disgraziato! quanto ti sarebbe stato meglio tacere che non aver parlato. È vero che, anche nel tuo silenzio, guardandoti entro avrei scorto il medesimo; ma tuttavia il fatto stesso della tua pertinace affermazione mi muove la nausea e lo sdegno.
Francesco: Perché mai?
Agostino: Perché pensare il falso è senso di ignoranza, asserire impudemente l’errore è segno di ignoranza insieme e di superbia.
Francesco: Qual è la prova ch’io senta o enunci così falsi errori?
Agostino: Ma tutto ciò che hai ricordato! e prima di tutto quando dici d’essere ciò che sei in grazia sua. Se con ciò intendi che ti abbia dato ella questo essere, senza dubbio tu menti; se invece che ella non ti abbia permesso di essere da più, allora dici la verità. Ah, che grand’uomo saresti potuto riuscire, se ella con le seduzioni della bellezza non te n’avesse ritratto! Quello che sei, dunque, te l’ha dato la benignità della Natura; ciò che potevi essere te l’ha tolto lei, o piuttosto l’hai gettato via tu, ché ella è innocente. La sua bellezza veramente ti è apparsa così lusinghiera, così dolce, che attraverso gli ardori dell’acceso desiderio e le continue piogge del pianto ha inaridita in te ogni messe che poteva sorgere dalla virtuosa tua semenza nativa. Che ella poi ti abbia trattenuto da ogni atto turpe, te ne vanti a torto; ti ritrasse forse da molti, ma ti ha sospinto in affanni maggiori. Perocché né chi pur ammonendoci di evitare una via lorda di brutture, ci spinga poi in un precipizio; né chi, pur guarendoci da minori piaghe, ci inferisca frattanto alla gola una ferita mortale, sarà da dirsi nostro liberatore piuttosto che nostro uccisore. Così costei, che tu esalti per tua guida, trattenendoti da molte brutture ti ha spinto in uno splendido baratro. Quanto all’averti abituato a mirare all’alto, all’averti allontanato dal volgo, che altro fu se non averti reso suo vagheggiatore e, avvinto alla dolcezza di un solo oggetto, di tutti gli altri spregiatore e pigramente trascurato? che, come sai, è quanto di più molesto c’è nei rapporti umani.
[…]
Francesco: L’agile schermitore fa la finta e dà la botta; io sono impaurito così dalla finta come dalla botta, e già comincio a vacillare gravemente.
Agostino: Quanto più gravemente vacillerai, quanto ti avrò inferta una ferita gravissima. Però che costei che esalti, alla quale asserisci di dovere ogni bene, è quella che ti rovina.
Francesco: Buon Dio, in qual modo potrò persuadermene?
Agostino: Ella ti ha allontanato l’animo dall’amore celeste, ed ha deviato il tuo desiderio dal Creatore alla creatura; che è sempre stata l’unica e più spedita via verso l’errore.
Francesco: Non dare, ti prego, una sentenza precipitosa: l’amore di lei giovò, te l’accerto, a farmi amare Iddio.
Agostino: Ma invertì l’ordine.
Francesco: In che modo?
Agostino: Perché mentre tutto il creato deve esser tenuto caro per amore del Creatore, tu al contrario, preso alle grazie di una creatura, hai amato il Creatore non come si conveniva, bensì ammirando in lui l’artefice di quella, quasi non avesse creato nulla di più bello, mentre la venustà corporea è l’ultima delle bellezze.
Francesco: Chiamo per testimonio quella ch’è qui presente, e faccio conteste la mia coscienza che, come ho detto dianzi, non ho amato il corpo più che l’animo suo. Il che potrai conoscere da ciò; che quanto più ella è avanzata nell’età, che è la rovina inevitabile della bellezza corporea, tanto più fermo io sono rimasto nel mio pensiero; però che, quantunque il fiore della giovinezza visibilmente appassisce col passare del tempo, cresceva con gli anni la venustà dell’anima, la quale come mi porse principio all’amore così mi ci fece perseverare poi che vi fui entrato. Altrimenti, se mi fossi smarrito dietro il corpo, già da gran pezza sarebbe stato tempo di mutare proposito.
Agostino: Mi canzoni? Forse che se quell’animo stesso abitasse in un corpo squallido e rozzo, ti sarebbe del pari piaciuto?
Francesco: Non oso dir questo, dacché né l’animo si può scorgere né l’immagine corporea me l’avrebbe fatto sperare tale; ma se apparisse alla vista, amerei senza dubbio la bellezza di un animo anche se avesse un deforme albergo.
Agostino: Tu cerchi di puntellarti sulle parole; perché se puoi amare solo ciò che appare alla vista, segno è che amasti il corpo. Né vorrò tuttavia negare che anche l’animo di colei e i costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, appunto come il suo nome stesso (secondo che dirò di qui a breve) contribuì non poco, anzi moltissimo, a codesti tuoi furori. Accade infatti in tutte le passioni dell’animo, ma specialmente in questa, che da piccole faville insorgano grandi incendi.
Francesco: Veggo a che tu mi sforzi: a confessare cioè con Ovidio «l’animo amai insieme insieme al corpo».
Agostino: Ed anche dovrai confessare questo che segue: che né l’uno né l’altro amasti abbastanza temperatamente, né l’uno né l’altro come si conveniva.
Francesco: O Dovrai mettermi alla tortura prima che l’abbia a confessare.
Agostino: E dell’altro ancora: che sei caduto in grandi miserie a cagione di tale amore.
Francesco: Codesto, anche se mi metti sul letto di tortura, non ammetterò io mai.