FERNANDO ARAMBURU «Non assassiniamo, giustiziamo»

Da «Patria», Guanda, Milano 2020, pp. 274-6

La verità: a Joxe Mari, sul sedile accanto all’autista, il cuore batteva forte. Già lungo la strada aveva fatto finta di appoggiare le mani sulle ginocchia. Invece no. Si teneva le gambe per controllare il tremore. Oggi sa che c’è un prima e un dopo della prima vittima uccisa, anche se queste cose, pensa, dipendono da come si è fatti. Perché, è chiaro, fai esplodere con una bomba un ripetitore televisivo, faccio un esempio, o la succursale di una banca, e sì, provochi dei danni, ma sono sempre cose che si possono riparare. Una vita, no. Ora ci pensa con freddezza. Allora lo preoccupava un’altra cosa. Cosa? Be’, che i nervi gli giocassero un brutto tiro. Temeva di mostrarsi debole, insicuro, alla presenza dei compagni, o che l’ekintza fallisse per colpa sua.

Meglio agire, non lambiccarsi il cervello. Scese dall’auto con decisione, convinto di lasciare il tremore e le palpitazioni nella macchina. Non chiuse del tutto la portiera. E Patxo, che aveva occupato il sedile posteriore, nemmeno. Parlarsi, guardarsi? A che scopo? Avevano programmato tutto e la luce intensa del sole li colpì all’improvviso sul volto.
Mentre avanzava lungo il marciapiede smise di sentire i passi di Patxo alle sue spalle. Passò davanti a un portone a vetrate con il suo numero. Che numero? Come faccio a ricordarmelo dopo tanti anni? Invece ricorda che per entrare nel bar bisognava salire due gradini. O erano tre? La saracinesca non era sollevata completamente, ma abbastanza da non obbligarlo ad abbassare la testa. E subito percepì l’odore di fumo stagnante, di tugurio con cattiva ventilazione. Gli ci volle un secondo per abituare gli occhi alla penombra. E lo sconcertò non trovare l’obbiettivo all’interno del bar. Il locale non era molto più grande di questa cella, anche se più lungo, con un’apertura in fondo da dove all’improvviso comparvero il naso e i baffi.
«Ti dispiace aspettare un po’? Non ho ancora aperto».
Il tipo portava una catenina intorno al collo. Gli anelli argentati riflettevano la debole luce dell’unica lampada accesa. Gli scendevano lungo il petto leggermente peloso e scomparivano sotto la camicia, perciò Joxe Mari non poteva sapere con che specie di pendente terminavano. Quello che fece fu fissare lo sguardo su quello spazio, proprio sotto la gola, compreso fra i due segmenti di catenina. Avvicinò a quel punto la canna della Browning e sparò. Ebbe il tempo di vedere l’improvvisa crepa sanguinolenta prima che il tipo crollasse su un fianco e, nella caduta violenta, abbattesse uno sgabello.
Si muoveva ancora sul pavimento. Riuscì ancora a dire/ balbettare, mentre tentava di alzarsi, con voce spezzata:
«Non sparare. Prendi i soldi».
A Joxe Mari sembrò una provocazione che l’obbiettivo non fosse morto all’istante, oltre che un’offesa il fatto che lo scambiasse per un rapinatore. Il tono supplichevole, i faticosi sforzi di rialzarsi. Si convinse che il tipo volesse mostrarsi umano e suscitare compassione. A me non la dai a bere. Vide le file di bottiglie, la sbarra dove la gente di solito appoggia il piede. E ricordò una massima dell’istruttore: non assassiniamo, giustiziamo. Molta attenzione, dunque, a non sbagliare.  Fece un passo avanti e, senza perdere la calma, gli sparò fino a fargli a pezzi la testa.
Finalmente calò il silenzio. Lì a due passi, aperta, c’era la cassa. Avrei potuto approfittarne. Chi se ne sarebbe accorto? Non prese niente. Neanche l’acqua del rubinetto. E questa è la prova (se lo disse da solo mentre usciva dal bar) che la nostra è una lotta giusta.

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