CARLO TECCE La didattica a distanza fa male

[«l’Espresso», 8 gennaio 2021]

Dalla precarietà allo stress, il dicastero è al lavoro da mesi sugli effetti psicologici sugli studenti della Dad. L’Espresso ha consultato i documenti riservati

La didattica a distanza fa male. Si ha paura a dirlo, per non sovrapporre i drammi. Al ministero dell’Istruzione, però, lo sanno da mesi che quel rito digitale conosciuto con la sgradevole sigla di “dad”, nel lungo periodo, fa male agli studenti, riduce l’apprendimento scolastico, amplifica il disagio sociale, genera disturbi psicologi.

Al ministero dell’Istruzione lo sanno perché da mesi, da agosto soprattutto, sono sopraffatti da tabelle, ricerche, documenti riservati che provengono anche dalla collaborazione col Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. L’ultimo aggiornamento è di gennaio, riguarda un dettagliato sondaggio fra gli studenti. Così il ministero di Lucia Azzolina insiste fra le mura sorde del governo: a distanza, ma se necessario, se la pandemia infierisce ancora, non per pigrizia intellettuale, non per impreparazione amministrativa. Non sarebbe perdonabile. Il ministero dell’Istruzione, solo, si muove con ostinazione per i diritti degli studenti in un momento di doveri e il governo giallorosso, mai tanto compatto su un punto, reagisce infastidito. Come se non sopportasse questa ragionevole ostinazione. Allora si litiga e ci si confonde.

Qualcuno ha pensato alle conseguenze. «Il virus fa chiudere la scuola. La prevenzione non si contesta. Però la scuola chiusa apre nei ragazzi grosse ferite. Quelle invisibili, le più insidiose. Non facciamo finta che non esistano», racconta il dottor David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. Lazzari cura le ferite invisibili, scandisce concetti pietrosi con quel tono lieve dei professionisti che illustrano un evento medico ai neofiti, storditi al primo assaggio di dolore.

Sin da agosto gli psicologi italiani supportano il ministero dell’Istruzione e con la solita fatica, per l’irreversibile lentezza della burocrazia, aiutano presidi e docenti a scovare e sanare le ferite invisibili degli studenti che siedono in aula con la mascherina chirurgica oppure alla scrivania della cameretta per la “dad”: «Il nostro compito è intervenire in tempo sugli studenti per scongiurare le cicatrici e tutelare l’apprendimento. I dati che abbiamo raccolto – anche per il ministero di viale Trastevere – ci svelano che fra i ragazzi costretti a casa c’è un senso diffuso di stress, nervosismo, irritabilità e depressione», afferma Lazzari.

Gli adolescenti, i più colpiti, hanno messo in pausa completa l’esistenza e ogni annuncio del tal ministro o tal governatore di rientro in classe, più o meno attendibile, una volta anticipato, una volta posticipato, non fa che accrescere un sentimento di estrema precarietà. La scuola come luogo di trasmissione del contagio, o forse no, non troppo. Tutto è vago. Tutto è vario. Le conseguenze non lo sono.

Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, assieme a una società di indagini demoscopiche, a dicembre ha svolto per il ministero un’analisi trasversale alla popolazione scolastica con una serie di quesiti preparati dal proprio centro studi. Lazzari e colleghi hanno coinvolto gli alunni dalla materna alle superiori e anche i genitori: «Le nostre paure sono confermate: la pandemia ha scatenato disagi che velocemente si trasformano in disturbi. La didattica a distanza acuisce i pericoli, non ne abusiamo con leggerezza».

Nascondere l’evidenza

Chissà se il governo di Conte pensa alle conseguenze, mentre colora le regioni, sparge tappeti igienizzanti per le suole e scomodi banchi a rotelle. Chissà se le regioni ci pensano, soprattutto quando invocano poteri e con fiera autorità serrano le scuole, come esclusiva e valida soluzione ai mali del virus. Il ministero di Lucia Azzolina un po’ ci ha pensato e dallo scorso agosto ha intensificato i contatti con gli psicologi.

Il 9 ottobre il ministero ha firmato un protocollo d’intesa con il Consiglio nazionale e lì ha esposto, in forma chiara, ignorata ai più, i suoi indicibili timori: «Si intende realizzare una serie di attività rivolte al personale scolastico, a studenti e a famiglie, finalizzate a fornire supporto psicologico per rispondere a traumi e disagi derivanti dalla pandemia. Si ritiene necessario predisporre un servizio di assistenza psicologico. Si intende avviare azioni volte – si legge ancora nel documento ufficiale – alla formazione dei docenti, dei genitori e degli studenti, in maniera da affrontare, sotto diversi punti di vista, le tematiche riguardanti i corretti stili di vita e la prevenzione di comportamenti a rischio per la salute nonché avviare percorsi di educazione all’affettività».

Queste premesse, firmate da Azzolina e controfirmate da Lazzari, si sono tramutate in un fondo di 40 milioni di euro per gli oltre 8 milioni di studenti distribuiti in 8.290 istituti. Più un timido approccio che un progetto ponderoso. Di certo più di niente. Il 26 ottobre il ministero ha inviato una circolare ai dirigenti scolastici per le indicazioni sui bandi da attivare entro il 31 dicembre. Alla vigilia di Natale ne ha spedita un’altra per convincere i più scettici: «Circa l’ottanta per cento degli istituti scolastici ha aderito. Alcuni hanno già iniziato a novembre, altri avranno presto lo psicologo a scuola per operazioni individuali o collettive», commenta Lazzari, che sul tema si è confrontato con Agostino Miozzo, il capo dell’ormai noto Comitato tecnico scientifico (Cts), il gruppo di consulenti sulla pandemia del governo.

Internet non è il sapere

«Imparare da remoto è una sfida. I ragazzi generalmente imparano quando sono coinvolti attivamente e in ambienti in cui si sentono al sicuro e socialmente connessi. Imparare a distanza richiede un livello di attenzione sostenuta e un grande controllo emotivo. La richiesta è per tutti: studenti, insegnanti e genitori», ha spiegato alla rivista della Harvard Chan School la ricercatrice e psicologa americana Archana Basu, istruttrice della divisione di psichiatria infantile e dell’adolescenza al Massachusetts General Hospital, assai stimata dagli psicologi italiani. Questo era il preambolo. Questa è la conclusione di Basu: «La nostra sicurezza fisica e sociale è messa a dura prova. L’abbiamo chiamata scuola da casa, ma è una scuola di “crisi” a casa. Le preoccupazioni per la sicurezza sollecitano il sistema limbico, che può interferire con l’apprendimento». Lazzari insorge: «Per favore smettiamola di parlare di didattica a distanza. Nessuno ha preparato le famiglie, gli studenti, gli insegnanti a un’esperienza così pesante. Non basta un abbonamento gratuito a internet per espletare il compito. Qui si tratta di lezioni seguite davanti a uno schermo senza alcun coinvolgimento. L’aula di una scuola è lo spazio di eccellenza per la crescita psicologica e non abbiamo surrogati. Noi siamo indotti a credere che la scuola sia un contenitore di informazioni e nozioni. Se fosse così, sarebbe obsoleta. Invece la scuola ha una funzione fondamentale per strutturare le competenze psicologiche che ci offrono flessibilità, credibilità, maturità, capacità di fronteggiare le varie situazioni che la vita ci pone. E lo Stato non ha altre leve per allenare al meglio la sua società di domani».

L’associazione degli psicologi americani ha diffuso un prontuario per tentare di semplificare una missione improba degli insegnanti: decifrare i segnali di malessere che arrivano dagli studenti attraverso un collegamento a una piattaforma digitale e non alla tradizionale lavagna e poi rivolgersi agli specialisti. «La pandemia ha causato molta preoccupazione. Questi fattori di stress – scrivono – possono provocare problemi di salute mentale a chiunque e la comparsa di sintomi acuti per chi ne soffre già». Lazzari fa un’osservazione: «Non mi spendo in una lotta di categoria, sarebbe immorale, ma vorrei precisare che la rete psicologica pubblica italiana è insufficiente: abbiamo 8,4 dottori su 100.000 abitanti contro i 49 dei francesi».

La commissione paritetica composta da funzionari ministeriali e psicologi dell’Ordine ha ricevuto molte segnalazioni di criticità dagli insegnanti e dagli esperti che operano nelle scuole; tant’è che il 24 novembre, dopo un incontro di Azzolina con Lazzari al dicastero di Viale di Trastevere, si è deciso di accelerare i buoni propositi del protocollo d’intesa.

In fondo alla lista

Il Comitato tecnico scientifico è consapevole dei rischi generati da un massivo (eccessivo) utilizzo della cosiddetta didattica a distanza per gli adolescenti. Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi ha sempre riferito al Cts di Miozzo che la scuola è una priorità delle ripartenze, anche se non si tramuta in immediati benefici sul prodotto interno lordo, semmai sul futuro capitale umano dell’Italia. Il Cts annuisce, il governo pure, ma soltanto per la capienza degli autobus si è discusso senza esiti per mesi. Ci sono condizioni generali e oggettive che impediscono l’ingresso a scuola in alcuni periodi di particolare virulenza della pandemia, ma da subito, dal 3 marzo 2020, la scuola è stata spinta ad arrendersi al virus. E non si è più riavuta. I ragazzi dai 13 ai 19 anni, che da marzo non sono riusciti più a mettere piede a scuola, tranne chi ha fugacemente partecipato all’esame di Stato, rapido come i tamponi antigenici, in un sondaggio di settembre promosso dagli psicologi, per la maggior parte si sono dichiarati ottimisti sul ritorno alla normalità dopo la fine della pandemia. Poi le speranze, e anche le sensazioni positive, come dimostra l’ultima rilevazione, si sono rarefatte. Chiosa Lazzari: «I ragazzi adolescenti sono palazzi in costruzione, sono i più facili da riparare, ma anche quelli che patiscono i danni maggiori da un fenomeno avverso. La pandemia gli ha sottratto un pezzo di mondo come al resto della popolazione, ma la loro specifica fragilità ci obbliga a una reazione migliore, più efficiente. Un modo per non avere rimpianti è valutare ciò che accade quando li lasciamo al computer per una lezione di matematica e l’altro modo è dirsi la verità». Pensare alle conseguenze.