SERGIO LUZZATTO Se la memoria è senza storia

[«Corriere della Sera», 24 gennaio 2006, in I popoli felici non hanno storia, il manifesto, Roma 2009]

Come Alessandro Piperno, anch’io sono ostile al Giorno della memoria. Ma lo sono per ragioni diverse dalle sue, esposte sul «Corriere» dell’altro giorno. Piu che il contenuto estetizzante del 27 gennaio (la «commozione delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz»), mi disturba il suo contenuto fuorviante. La retorica sul cosiddetto «dovere della memoria» è sbagliata per due motivi. Anzitutto, perché la memoria della storia non è mai un dovere. Tanto più in quanto applicata alla tragedia della Shoah, è un lavoro, è un problema, è una pena. Ha scritto Primo Levi nella poesia che inaugura Se questo è un uomo: «Meditate che questo è stato: / […]/ o vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi». La lezione (e la passione) di Primo Levi dimostrano che la posta in gioco con la memoria della Shoah è troppo alta perché si possa giocarsela tutta in un singolo giorno dell’anno, come un’estrazione della lotteria. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di ricevere ogni 27 gennaio una cartolina-precetto dove sta scritto: «Oggi non dimenticate di ricordarvi». L’enormita della Soluzione finale non ammette la scorciatoia di un calendario trattato come I’oroscopo. La seconda ragione per cui mi disturba la retorica sul «dovere della memoria» riguarda il nesso fra l’antisemitismo e l’antifascismo. Nell’ultimo decennio, con un’accelerazione a partire dal 1998 (sessantesimo anniversario delle leggi razziali) e poi dal 2000 (istituzionalizzazione del Giorno della memoria), gli italiani sono stati chiamati a prendere piena coscienza della gravità e della portata dell’antisemitismo fascista. Adesso, da Gianfranco Fini in giù, non c’è più un adulto raziocinante che sia disposto a minimizzare l’orrore della persecuzione razziale che ebbe luogo in Italia fra il 1938 e il ’45. Ma il rovescio di questa medaglia consiste nell’opera di “vittimizzazione” degli ebrei italiani: cioè nell’inclusione degli ebrei perseguitati dentro quell’autentico calderone delle vittime che sta diventando, secondo il discorso pubblico sul passato, l’intero Novecento. Anche questo è due volte sbagliato. Primo, perché suggerisce l’equazione fascismo – antisemitismo, mentre il fascismo non fu soltanto le leggi razziali, né le vittime del Ventennio furono soltanto i quarantamila ebrei italiani: furono centinaia di testimoni di Geova, migliaia di zingari e di omosessuali, decine di migliaia di oppositori politici, centinaia di migliaia di operai, milioni di donne… Secondo, perché contribuisce all’idea penitenziale di un Novecento dove, dal più al meno, tutti ebbero a soffrire. Come per un’imperscrutabile maledizione biblica («Sarai una vittima»), anziché per le concrete azioni di determinati uomini. La Shoah non è stata il «male assoluto» di cui tanto parlano i retori del 27 gennaio. Sia il sostantivo che l’aggettivo sono scelti senza cura. Il sostantivo, in quanto evoca una dimensione etica piuttosto che storica; l’aggettivo, in quanto suggerisce che la persecuzione razziale sia stata a legibus soluta, sciolta da ogni legge, quando corrispose invece a una legislazione politicamente voluta e operosamente perseguita. Risultato? L’intera dinamica della Shoah viene consegnata a una dimensione astorica, o addirittura trascendente: con un vantaggio netto per gli eredi dei carnefici, e anche – in un qualche dolorosissimo modo – per gli eredi delle vittime.

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