Il mio primo sit-in ad agosto

Svolgo alcune riflessioni che non sono particolarmente “corrette”. Antefatto: lunedì un po’ di gente (nell’ordine dei trenta o quaranta) al provveditorato agli studi di Roma decideva, dopo la novità che i risultati del concorso di abilitazione non sarebbero stati affissi, di proclamare un sit-in davanti al ministero della pubblica istruzione per questa mattina alle 10.30. Il comitato ha già un nome – Comicon – e uno slogan – abilitati o dimenticati? La “piattaforma” non sembra molto differente da quella a suo tempo ipotizzata dai precarissimi. Ma intervengono una serie di problemi e non tutti possono essere attribuiti al clima – un caldo bestiale su quella scalinata – o al fatto che molti sono in ferie – ma ci sono. Al sit-in partecipano infatti dodici persone. Sembrano di più ma tutto ad un tratto compaiono telecamere e taccuini e si scopre – con molta meraviglia, devo dire, e non altrettanta da parte degli astanti – che gli altri quindici sono giornalisti. Ciascuno viene intervistato e dice banalità: sono mesi che aspetto e non ci danno i risultati. Qualcuno rifiuta di essere intervistato – io, per esempio – e la giornalista del tg2 molto insolente: ma non ha proprio niente da dire in questa situazione? Quale situazione scusi? Io ogni giorno vorrei parlare di qualcosa e nessuno mi sta a sentire. Mi pentirò di questa esibizione mancata pensando che i miei alunni avrebbero potuto vedermi e ricordarsi di me. Tra i presenti ci sono due curiosi: due turisti inglesi con i quali ci intendiamo in francese. Questo fatto non è privo di importanza. Fra le altre cose i turisti domandano: e il sindacato? Ma quali sindacati, questa è gente che non lavora (o fa lavoretti spuri): quindi è una non categoria, quindi non può che avere alle spalle un non sindacato. Non capiscono e se ne vanno. Uno che ha anche parlato al tg loda il volantino dei precarissimi: l’esposizione è buona, che font è? Il problema non è che non è mai entrato dentro un’aula – anch’io fino a tre anni fa non ci ero mai entrato e avevo i miei pregiudizi – ma il particolarismo che io attribuisco alla visione di tutti in questo momento. Attacca bottone: certo – dice – il concorsone non l’hanno voluto perché non gli andava di rimettersi a studiare non mi piacciono i docenti perché sono corporativi e poi si lamentano di tutto e hanno le ferie metà dell’anno e lavorano solo la mattina. Bravo. Mi chiedevo cosa ci stavo a fare. Gli inglesi scuotevano mestamente la testa quando gli dicevo che in Italia manca la cultura. Nel volantino dei precarissimi noi non abbiamo attaccato diritti incontestabili e abbiamo difeso diritti che nessuno ricorda in questo frangente. Come quello di chi alla scuola ci si è affacciato troppo tardi per vedersi riconosciuto il diritto di farne parte. A tutti. Ma lo abbiamo fatto in nome del principio di un reclutamento più equo e trasparente, in nome di un interesse partecipato al miglioramento della scuola come istituzione, infine tentando di porre un limite all’individualismo delle categorie. Ci troviamo – le chiacchiere raccolte un po’ casualmente a questa “manifestazione” non sono in realtà per niente casuali – di fronte ad un muro di indifferenza proprio tra coloro che dovrebbero per primi sostenere la difesa del loro essere non categoria – non necessariamente con le nostre stesse posizioni. Un dato di fatto mi sembra di una certa importanza: con questo sistema – i due concorsi, le quattro fasce delle nuove graduatorie, i famosi 360 giorni – si è creata una varietà indefinibile di aspettative che non possono – se non con estrema difficoltà – essere collegate. Perché non si cerca di andare oltre e comprendere che finché le cose saranno gestite in questo modo nessuno – e non qualcuno – potrà rimanere soddisfatto alla fine del gioco?

(3 agosto 2000)

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