Da «Filosofia e tecnologia»
La scuola del civis, nel condurre dal narcisismo primario alla communitas, trovava non a caso nel sapere storico la sua chiave di volta. La storia infatti per definizione deindividualizza e ci consegna a un percorso collettivo: un percorso fatto di evoluzione e di confronti tra tipologie diverse di società e di relazioni umane, di attitudini esistenziali e atteggiamenti vari nei confronti del mondo, di diverse filosofie e religioni, di diverse letterature e mitologie […] La storia ci globalizza, allarga la nostra visione a essere kantianamente membri di quel valore supremo che è il genere umano […].
Questa scuola della cittadinanza, fondata sull’interiorizzazione nell’età dell’adolescenza della «cultura del comune», quale grado di maturazione indispensabile verso una ulteriore e successiva individuazione, è profondamente diversa […] da una scuola ispirata a una cultura del mondo del lavoro e del problem solving […]. Non che la tradizione del pragmatismo americano, e in particolare l’opera di John Dewey, non abbia dignità e profondità di pensiero, giacché ha mirato anch’essa a produrre una cultura della cittadinanza. Ma è una tipologia di socializzazione e di cittadinanza che si vuole realizzata attraverso il modello e il paradigma del fare, e non del conoscere […]. Né è casuale che il pragmatismo statunitense sia rimasto profondamente condizionato dal darwinismo, ossia dalla problematica biologica di un organismo vivente che si deve riprodurre in un determinato ambiente, superando di volta in volta le tensioni e gli squilibri che quell’ambiente gli impone. Per cui l’orizzonte del pragmatismo/darwinismo, malgrado la sua apertura ai temi della democrazia e della importanza per la stessa democrazia di u7n’istruzione scolastica generalizzata, rimane, a mio avviso, irriducibilmente individualistico e, come tale, propone una scuola in cui non è fondamentale la formazione di un gruppo classe comunitario e collaborativo […] bensì in cui è dominante la formazione del singolo individuo in concorrenza con l’ambiente e con i problemi che questo costantemente gli pone, con un’estensione di quello spirito di competizione anche ai suoi simili e compagni.
Ora in Italia è accaduto, almeno a me sembra, che una classe politica trasformista e sostanzialmente incolta, sia passata, senza colpo ferire, dallo «stalinismo democratico», ossia dal comunismo del PCI, al liberismo economico e sociale del nuovo capitalismo e, per raggiungere e mantenere il potere come nuova classe dirigente, a partire dall’opera demolitrice di Luigi Berlinguer, Ruberti e soci, abbia consegnato scuola e università alla mala genia dei pedagogisti, che, privi per definizione di filosofia, hanno traghettato la scuola preesistente, pur con tutti i suoi limiti, dello storicismo e dell’umanesimo, verso la scuola-azienda dei crediti e dei debiti, dei percorsi formativi individualizzati, dell’autonomia scolastica, dei progetti a premio, dei presidi-manager, una scuola cioè modellata sul paradigma del mercato delle merci e del denaro, ma soprattutto su un sapere che limita e rinchiude gli occhi sull’immediato e allontana il pensiero dalla fatica ma anche dalla bellezza della profondità della mediazione.