MARCO DI BENEDETTO Ritornino i corpi!

[I giorni del rischio, 29 gennaio 2021]

In questi giorni – settimana più, settimana meno – i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori italiane tornano sui banchi dopo circa tre mesi di DDI (didattica digitale integrata), più popolarmente conosciuta come “didattica a distanza”. Su di loro, sulla loro fatica e la loro resilienza, sui loro disagi e loro proteste si è scritto e detto molto. E, sicuramente, molto sarà ancora da raccontare, analizzare, riprogettare.  Molto meno si è scritto e detto degli insegnanti e del personale scolastico. Senza troppe pretese, provo a farmi portavoce di tante colleghe e colleghi che, non senza momenti di scoraggiamento e fallimento, in questi mesi ci hanno messo l’anima per continuare a fare comunità, a fare scuola, a stare in relazione con quei nomi, quei volti, quegli sguardi pieni zeppi di futuro, eppure in molti casi gia immelanconiti, che ogni mattina è parso veder bucare lo schermo di un computer ed entrare in casa propria o in un’aula abitata dai soli banchi, rotellati o meno. 

O, perlomeno, ci hanno provato a metterci l’anima, insieme al corpo, alla voce e alle proprie capacità, facendo lo slalom tra le normative scolastiche, la stesura di protocolli e regolamenti, le proprie personali incompetenze informatiche, le connessioni altalenanti, le strategie furbesche degli studenti, e quelle piccole soddisfazioni che ripagano di giornate chiuse da un collirio sugli occhi arrossati, dopo 8-10 ore davanti al pc.

Noi, quindi, siamo pronti a tornare in classe e affrontare il rischio della presenza dei corpi? Non abbiamo forse anche noi bisogno – dopo aver per lungo tempo “digitalizzato” anche il nostro insegnare – di reimparare la fatica sanguigna di reggere lo sguardo arrogantemente impaurito di un’adolescente, l’arte viscerale di un ascolto profondo di tanti chiassosi silenzi, il rischio carnale dell’empatia?

Il cervello è molto più veloce del corpo, sebbene i due abbiano una relazione massimamente intima. E se passare dal corporeo/sensibile al cerebrale/mentale è un’operazione veloce (e la rivoluzione digitale ce lo mostra palesemente), non è altrettanto veloce il percorso di ritorno al corporeo e alle sue pazienze e passioni, al suo pathos e al suo eros, insomma, alle sue mediazioni sensibili, un tantino assopite dopo la seduzione della immediatezza digitale. 

Io ero abituato a insegnare in piedi, camminando avanti e indietro, giocando col sorriso e con i gessetti e i pennoni della LIM. Da tre mesi sono seduto e devo stare fermo davanti a una telecamera. Temo che dovrò reimparare a muovermi. Dovrò riallenare i muscoli di un lavoro che non è certo usurante per il corpo, ma lo può essere – benedizione suprema quando accade – per l’anima, se “malcapitatamente” sei innamorato di quello che fai e, soprattutto, di coloro per cui e con cui lo fai. 

La scuola non è un problema, non è un luogo, non è un mestiere. È una relazione, è – per dirla con gli antichi greci – scholé, quel tempo libero, quell’ozio sano in cui a nutrirsi di cose desiderabili e belle è proprio l’anima.  E invece noi siamo l’unico paese in Occidente in cui il Ministero che si occupa della scuola si chiama “dell’Istruzione”. In Germania è chiamato “della formazione”, in Francia, Regno Unito e Spagna “dell’educazione”. 

Eppure, né io mi sento un istruttore, né i “miei” ragazzi e le “mie” ragazze mi chiedono di essere istruiti. C’è invece una fame lancinante di relazioni in cui sentirsi riconosciuti, non in base a surreali griglie di competenza, ma in virtù di sguardi accoglienti, di parole chiare, di volti induriti non per lo stress o per frustrazioni acide da scaricare sui ragazzi, ma per la potenza degli occhi fissi sulla mèta da raggiungere insieme, magari con l’andatura dei più lenti (come pare facesse quel Nazareno…). 

E, invece, ci chiedono di istruire. Se poi capita di educare…passi, ma con moderazione (sigh…sob…sgrunt!). Se a questo ci aggiungiamo la sensazione (più che una sensazione, in realtà…) che negli ultimi anni molte famiglie si sentono “clienti” di un servizio del tipo “soddisfatti o rimborsati” (ma su questo torneremo con più calma), la pagella della scuola non appare poi così consolante al giro di boa di questo scrutinio di metà anno che segna il rientro in presenza. 

Ma allora non sarà il Covid-19 o una sua variante a rubare il futuro a questa generazione di nativi digitali. E nemmeno il digitale.  Il rischio è che il loro futuro glielo rubi l’assenza di una visione educativa, alla cui mancanza si cerca di sopperire – poveri noi! poveri loro! – con la pubblicazione di circolari, verbali e griglie degni di un “Ministero dell’Istruzione”.  Anche a scuola, però – ve lo bisbiglio sottovoce – un piccolo “resto” tiene ostinatamente il punto della fiducia sconfinata nell’altro, anche se quindicenne; tesse la trama della speranza, sebbene già strappata; rischia l’amore, seppur fragile. 

E rientra a respirare il profumo, anzi, l’odore dei corpi.

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