[dalla Relazione finale della SSIS, maggio 2002]
Ho scelto l’Amaldi perché è una scuola dell’estrema periferia romana, di cui si dice tutto il male possibile – basta il nome del quartiere, Torbellamonaca, a evocare immagini terrificanti anche a decine di chilometri. Ci si arriva con la macchina, sbagliando strada, attraversando incroci stretti e scoscesi tra torri immense di palazzi circondati da campi, prati e autostrade. E basso, esteso c’è anche l’Amaldi, edificio modernissimo la cui entrata informa della presenza di un cinema aperto al pubblico e da cui già si scorgono attrezzature non comuni: una pista di atletica, un ampio parcheggio.
Strutture: tre palestre sembrano tante, ma se si riflette sulla quantità delle classi (le sezioni arrivano fino alla lettera Q) si capirà che il numero è proporzionato al turnover: sono cinque o sei le classi che hanno l’ora di educazione fisica in comune. Inoltre per gran parte dell’inverno sarà inagibile la pista rossa che gira intorno alla scuola dove, in tutto il tempo del mio tirocinio, ho sempre visto qualcuno correre.
Colpisce all’entrata la locandina di un film. Si proietta, mi ha detto una delle figure obiettivo con cui ho parlato, in aula magna il venerdì e il sabato sera in mancanza di un cinema di quartiere. Si tratta di un modo di rendere più stretto il rapporto della scuola con il territorio, di dare ai ragazzi un motivo per restare nel quartiere senza sentirsi chiusi nel ghetto.
L’edificio è molto moderno. Lo spazio urbanistico su cui è stato costruito ha permesso una progettazione estensiva anziché intensiva. Due soli piani con ampi e lunghi corridoi. Un ambiente luminoso in contrasto con certe scuole vecchie e cadenti del centro.
Il pof dentro il pof
La scuola ha più di 1000 alunni. Il suo largo bacino di utenza – non ci sono licei scientifici in tutta questa parte di Roma – e la conseguente larga quota di iscrizioni sulla base delle necessità non fanno del pof uno strumento di difesa della scuola. Questo spiega la natura del documento: le attività abbondano, è sufficiente descriverle.
La funzione essenziale del piano – non privo di importanza, come dimostra la sua rilegatura in fascicolo, con tanto di logo – è quella di gestione della scuola. Esso vorrebbe rappresentare un ideale superamento della vecchia struttura in commissioni dell’organico scolastico e proporsi come una sorta di “governo”, trasparente e dinamico. Favorisce questo uso del piano l’atteggiamento “democratico” del Dirigente scolastico, che accorda ai suoi collaboratori una certa delega nella gestione della scuola. In altre situazioni, mi spiega una figura obiettivo, il clima oppressivo instaurato dalla Dirigenza ha fatto del pof uno strumento di consenso alla sua politica, una cassa di risonanza. In altri casi si è arrivati a impedire la costituzione di uno staff di collaboratori.
Il pof, inoltre, sarebbe pienamente riuscito anche dal punto di vista della sua visibilità presso l’organico della scuola. La strategia vincente è consistita nella responsabilizzazione del corpo docente. A ciascuno è stato chiesto di collaborare con una delle sette figure obiettivo.
La percezione del pof. Il pof fuori dal pof
Il piano scolastico dell’offerta formativa suscita due sentimenti complementari tra i non addetti ai lavori: indifferenza e ostilità. Ho parlato dell’argomento pof con una decina di docenti, in varie occasioni, e senza un ordine preciso. Ho sempre rivelato, qualora mi fosse stato richiesto, il motivo delle interviste. Gli intervistati non appartengono ad una tipologia definita.
Tutte le interviste concorrono ad avvalorare un’impressione già maturata in altri contesti: il pof è un fatto più formale che sostanziale. Le figure obiettivo sono poco più che dei fantasmi; ci si sbaglia facilmente nel designarle; si confondono con i collaboratori del preside finendo per ammettere che sono la stessa cosa. Tutti sanno cos’è il pof, che però riducono ad un elenco di attività con una presentazione, e cosa sono le figure obiettivo, ma quasi nessuno sa definire esattamente a cosa servano – se non un docente che ha mostrato di saper collocare l’uno e le altre in un tipo di politica scolastica da lui decisamente criticata perché truffaldina: introduce una forma di controllo sulle attività dei docenti, retribuendo solo i docenti più in vista.
Il pensiero sul pof da parte dei non addetti ai lavori si può sintetizzare in due battute: il pof è una facciata e la facciata induce la scuola a inventare sempre nuove attività mentre si perdono di vista quelle cose che una scuola dovrebbe insegnare, per esempio leggere. Di fatto la scuola va avanti con o senza pof.
Un’indagine sul pof, condotta dall’esterno, non può non essere, in larga misura, un’indagine sulla sua facciata, sul modo in cui viene vissuto e recepito dagli operatori scolastici. Per arrivare a penetrare profondamente l’essenza di un piano, la sua filosofia, occorrerebbe infiltrarsi più in profondità: assistere a un collegio docenti, spiare la vita quotidiana dell’istituto, raccogliere osservazioni fuggevoli, non indotte. L’anno scorso la preside del mio istituto distribuì un questionario per verificare l’indice di gradimento del pof da parte del corpo docente, il suo grado di partecipazione e di consapevolezza. Si trattava di un pof d’attacco, progettato per una scuola che vive la difficile transizione da istituto magistrale a liceo multi-sperimentale. La strategia intendeva rendere noto a tutti quanto fossero inadeguate – e poco apprezzate – le figure obiettivo elette dal collegio docenti. L’osservazione dall’interno mi aveva consentito, senza averne l’urgenza, di percepire alcune caratteristiche del pof e della sua ricezione all’interno di una scuola: molti docenti, per esempio, non sapendo come rispondere ai quesiti si limitarono a copiarli dai colleghi; altri, non volendo sbilanciarsi, non espressero alcun parere. Al successivo collegio docenti la preside rivendicò davanti a tutti una certa interpretazione del questionario chiedendo che si formasse una nuova commissione pof. Il pof è, effettivamente, uno strumento di governo. Crea o organizza il consenso.
Il pof ha certamente un contenuto che il fascicolo stampato rende pubblico e accessibile. Ma è soprattutto una presentazione, una facciata che la scuola offre di sé in una dimensione che non riguarda solo le relazioni al suo interno, ma soprattutto quelle con l’esterno, con la società, con il pubblico e con la sua domanda. La qualità di tale domanda, quando la quantità non è in gioco, non può essere indifferente. Il problema della sopravvivenza – chi non fa il pof morirà, affermava la preside del mio istituto ex magistrale – si tramuta in quello del mantenimento del prestigio.
Da cosa nasce il prestigio di una scuola? Le attività non bastano a spiegarlo. Più che a singoli indicatori di qualità – la collocazione socio-culturale, il tipo di scuola, la programmazione, la buona reputazione degli insegnanti, la tradizione, la maggiore o minore severità oppure, a condizioni esterne, la concorrenza di scuole dello stesso tipo –, il Liceo Amaldi deve buona parte del suo prestigio al fatto di aver saputo dare di sé un’immagine forte e dinamica, in contrasto con la disgregazione del contesto socio-culturale a cui appartiene. La partita, al momento della redistribuzione nella scuola dell’autonomia di ruoli e sfere d’influenza, si gioca in parte rilevante intorno al pof, al modo in cui viene redatto, all’equilibrio delle sue componenti.
Alcuni degli elementi del pof sono oggettivi, verificabili anche da un inesperto: quanto è grande la scuola, quanti alunni la frequentano, quanti sono i laboratori, chi sono i docenti e cosa insegnano, lo schema delle sezioni tradizionali e sperimentali con le ore settimanali per ciascuna materia distribuite per anno. Ma anche i dati oggettivi, di per sé neutri, possono diventare attrattive, se si assume la quantità come un valore in sé, a prescindere da altri indicatori: “Il Liceo conta quest’anno 1308 studenti, 115 Docenti e 55 classi; sono numeri questi che suggeriscono l’immagine di una costruzione articolata, complessa, ma solida”.
Il resto è progetto: si promette di riempire gli spazi con dei contenuti specifici, congrui, innovativi: “I contenuti dell’insegnamento-apprendimento provengono dalle discipline quali si evidenziano nei programmi ufficiali del Liceo Scientifico, ovviamente secondo la scelta che ciascun insegnante autonomamente compie in rapporto alle situazioni in cui deve operare ed agli obiettivi che vuole raggiungere. Si prevede adeguato ed ampio impiego delle tecnologie didattiche, dei laboratori e delle risorse disponibili a supporto dell’apprendimento”. Nulla di nuovo, se non il fatto che la trasmissione delle informazioni, prima orale, ora passa attraverso il canale del fascicolo, si avvale di un linguaggio di facile comprensione, in accordo alla prima finalità dichiarata dal documento stesso: “l’informazione a genitori, studenti e docenti di tutte le attività che si svolgono nel Liceo”.
Altamente innovativa – anche se prevista dal regolamento dell’autonomia (art. 4, comma 4) – è invece l’inclusione nel pof, accanto alle finalità e agli obiettivi disciplinari e interdisciplinari, di una griglia di valutazione relativa alle materie curricolari comprendente anche un percorso didattico che, si dichiara, “i docenti si propongono di attuare”. Non c’è alcuna garanzia che questo avvenga ma il criterio della trasparenza è sancito formalmente, insieme a quello della collegialità – i criteri sono concordati tra i docenti della materia (italiano) o dell’area (lingua) ecc. – e conseguentemente a quello dell’uniformità.
Il pof, infine, ha anche un suo spazio metatestuale. Nella presentazione delle attività non viene omessa ciò che sta alla base del piano stesso, l’immagine della scuola. Immagine che non può essere riqualificata se non a partire dagli aspetti esteriori: “E’ un progetto che si propone di riqualificare la vita scolastica degli alunni e dei docenti, riorganizzando gli spazi interni ed esterni con il ripristino e il potenziamento della segnaletica, con l’arredo iconografico dei corridoi e degli spazi dell’area scuola, e con la realizzazione e riqualificazione dei cortili interni e degli spazi esterni”.
Impressioni e osservazioni sui cambiamenti in atto nella scuola dell’autonomia
Non è la scuola che cambia, come sostiene il titolo di un saggio di Luciano Serra: “Cultura organizzativa e autovalutazione nella scuola che cambia”[1]. A cambiare è l’ambiente circostante. Sottoposta a una nuova, più dinamica e più pressante domanda sociale, la scuola vive la sua difficile transizione da un modello razionale, burocratico e accentrato, al modello della cosiddetta “scuola dell’autonomia”, sistema aperto all’ambiente e alle sue sollecitazioni socio-culturali, decentrato, anti-autoritario, basato sulla professionalità delle sue componenti, dotato di un’ampia funzionalità intrinseca ed estrinseca: “Se nell’organizzazione predomina la cultura professionale-tecnica, essa assumerà l’aspetto di una ‘struttura funzionale’ in cui i membri gestiscono uno o più progetti di cui hanno responsabilità dirette in relazione agli obiettivi ed agli esiti da conseguire”[2].
Tale transizione ha avuto un certo slancio a partire dall’entrata in vigore, il 1° settembre 2000, del “regolamento dell’autonomia”[3]. L’autonomia non si configura come spinta al particolarismo, ma trova la sua dimensione fondante proprio nella coerenza tra il rispetto dell’uniformità generale e l’apertura alla società: “Le istituzioni scolastiche sono autonomie funzionali alla definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa. A tal fine interagiscono tra loro e con le comunità promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema d’istruzione”[4].
La progettualità autonoma crea una spinta al miglioramento, la concorrenza tra gli istituti tonifica il sistema elevandone il livello complessivo. Si fa strada il concetto di “offerta formativa”, un’offerta svincolata dalla didattica burocratica e statica dei programmi ministeriali. Il concreto esplicitarsi di tale offerta avviene attraverso il piano dell’offerta formativa – il pof –, previsto dall’articolo 3 del regolamento dell’autonomia. Il pof viene definito come il “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”. È elaborato ed eventualmente aggiornato dal collegio dei docenti che provvede contestualmente ad eleggerne gli esecutori (le figure obiettivo), contiene la programmazione curricolare ma soprattutto extracurricolare dell’istituto (le attività, i rapporti con altre istituzioni e scuole, l’educazione alla salute, alla conoscenza e al rispetto del territorio); in ossequio alla legge sulla trasparenza ma anche alle sue finalità intrinseche, è pubblico. Ovvero, come stabilisce il comma 5, molto spesso disatteso, “è reso pubblico e consegnato agli alunni e alle famiglie all’atto dell’iscrizione”.
Un processo non facile, a causa di numerosi ostacoli strutturali e contingenti e di nodi tuttora irrisolti nella stessa formulazione dell’autonomia: la resistenza interna, la scarsa professionalità degli operatori scolastici, la persistenza di un modello burocratico. Ma, soprattutto, il concreto pericolo che dell’autonomia si faccia un uso improprio, enfatizzando gli aspetti tecnico-manageriali e meritocratici, esasperando la sperequazione tra scuole o piegando la flessibilità a discrezionalità nell’interpretazione delle norme[5].
In realtà l’autonomia continua a essere per molti un oggetto misterioso. Un osservatore attento, rimasto lontano dalla scuola per molto tempo, probabilmente non noterebbe, tornandoci, una trasformazione radicale nella prassi e nella mentalità degli operatori scolastici. Attribuirebbe i molti cambiamenti parziali a una normale azione del tempo, non ricollegandoli a un principio unificante, alla nascita di una nuova filosofia. Se leggesse il regolamento dell’autonomia, di fronte alla vaga enunciazione dell’oggetto, continuerebbe a non avvertire la portata del fenomeno: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”[6].
Il piano dell’offerta formativa, che dell’autonomia dovrebbe diventare il massimo referente didattico e organizzativo – il regolamento dell’autonomia parla espressamente del pof come “documento costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”[7] –, naviga a vista. Include gli obiettivi e le finalità comuni a qualunque scuola o a quel tipo specifico di scuola (“…il Liceo scientifico si configura come un indirizzo di studi particolarmente adeguato alle esigenze di preparazione professionale manifestate dalla società contemporanea…”), le sue attività curricolari ed extra-curricolari – che esistevano anche ieri, benché fossero probabilmente meno visibili –, ma rimane povero e debole sul piano della proposizione di un’identità. Si dirà: l’autonomia si trova per il momento in una fase preparatoria. Il pof, in questo senso, non va letto come l’attuazione a tamburo battente delle norme ma come uno strumento di riflessione sulle proprie specificità, di auto-valutazione e, quindi, di individuazione delle strategie. Il percorso non è senza contraddizioni. Per il momento un osservatore, soprattutto se la sua presenza in una scuola è occasionale, sarà colpito più dalle sensazioni e dalle aspettative generate dall’autonomia che dai reali effetti della sua attuazione.
Note
[1] L. Serra, Cultura organizzatica e autovalutazione nella scuola che cambia, Roma 2000.
[2] Ibid., p. 60. Il corsivo è nel testo.
[3] Dpr 8 marzo 1999, n. 275, in attuazione dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
[4] Dpr cit., art. 1, comma 1. Ma si veda anche il comma successivo: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti […] coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione”.
[5] Per una visione critica dell’autonomia cfr. Vademecum d’autodifesa dalla scuola-azienda, a cura di F. Alliata, Viterbo 2001; D. Cusenza, La falsa autonomia ministeriale, in “Cobas”, 1998, 1; C. Cremaschi – F. Cremascoli, Verso l’autocertificazione del merito?, in “Educazione&Scuola”, rivista telematica.
[6] Dpr cit., art. 1, comma 2. Il regolamento dell’autonomia si può leggere anche in L’agenda dell’autonomia 2000-2001, fascicolo distribuito gratuitamente nelle scuole a cura del Servizio per la Comunicazione del Ministero della Pubblica Istruzione.
[7] Dpr cit., art. 3, comma 1.