Premessa (5 novembre 2016)
Nel 2012 c’era il governo Monti e al ministero della Pubblica Istruzione sedeva Profumo, in compagnia del sottosegretario Rossi-Doria. Nel febbraio 2013 ci sono state le elezioni, in cui non vinse nessuno, ma il PD, il cui leader era Pierluigi Bersani, ottenne un certo vantaggio per il fatto di incassare un discreto premio di maggioranza alla Camera (incostituzionale). Insufficiente per formare un governo. E via si seguito. Nulla di quello che scrissi allora in questo articolo è stato smentito, nonostante le svolte (apparenti) e le giravolte (frequenti) della politica. Il programma è andato avanti: gli organi collegiali sono stati svuotati, i privati sono entrati a tamburo battente (dalla porta principale), la possibilità per i dirigenti di scegliersi i docenti è stata realizzata con qualche imprevedibile ampliamento (la possibilità di scambiarseli) e anche nella premialità l’ingegneria sociale del renzismo ha preferito il fluido trickle down alla formazione di una casta. Non si parla più di 24 ore (e nemmeno di 21), anzi per il momento un po’ di quattrini sono serviti per oliare il sistema (con l’insospettata comparsa di ore di potenziamento). A conferma che non era e non è la razionalizzazione l’obiettivo dei padroni del vapore, ma la costruzione di una scuola che di pubblico conserva solo il nome sulla facciata.
[Critica impura, 8 novembre 2012]
I
L’effetto 24 ore, a un mese o più dall’annuncio che l’orario dei docenti della scuola secondaria sarebbe stato aumentato senza colpo ferire (senza aumento di stipendio) e senza tener conto del contratto, è che tutto, nel lavoro a scuola, nel lavoro a casa, i colloqui con i genitori, le incombenze quotidiane legate agli incarichi, le riunioni, tutto è diventato più faticoso, percorso com’è, come non mai, dal dubbio sul senso, sulle finalità. Restituire i compiti, dopo averli corretti a ore improbabili, dopo aver più volte tentato di nasconderli, o di dimenticarli nel cassetto, e vedere queste facce contrariate per un mezzo voto, l’ostilità di chi non solo non vede che tipo di sforzo c’è dietro la correzione di un compito (la cosa probabilmente è relativa, specie in mancanza di un riconoscimento formale), ma a cosa serve esprimere un giudizio, scomporre il voto in categorie che poi gli risultano incomprensibili, ma che sono, dovrebbero essere il pane quotidiano della scuola, per prima la capacità di analisi e di rielaborazione di un concetto.
Ma è solo un esempio. Ho l’impressione, vengo subito al punto, che la mancanza di senso non sia dovuta a una proposta sciagurata, quella delle 24 ore, ma al fatto che siamo sempre più pericolosamente su un argine, quello tra la scuola intesa come luogo di apprendimento di una cultura disinteressata e qualcos’altro. Che finora abbiamo vivacchiato vicino al confine, spostando di qualche settimana, di qualche mese il momento della resa dei conti, ma ora non è più possibile. E la cosa più temibile, quella che forse non sospettavamo, è che i conti ce li dobbiamo fare anche tra noi.
In questo senso l’insensatezza della proposta, le 24 ore intendo, cadeva a fagiolo. E il ritiro, probabilmente parziale, sicuramente temporaneo, della proposta avrebbe lo stesso effetto del ritiro delle acque di un fiume dopo un’alluvione. A quel punto si dovrebbe parlare di effetto ritiro delle 24 ore e non so se sia meglio il primo o l’ultimo effetto, specialmente se si fa caso alle battaglie che ci aspettano dietro l’angolo ma anche alle forze di cui potremmo disporre quando saranno passati gli emendamenti (e quali emendamenti) al ddl stabilità.
Non è necessario metterci fantasia. Basta ricordare il giorno prima dello scoop delle 24 ore. E come sia difficile anche ora spiegare a colleghi che hanno studiato quanto noi, che vanno in classe tutti i giorni come noi, che hanno partecipato come noi ad assemblee e comitati contro la Gelmini, forse anche contro la Moratti (un po’ meno, comunque) che il Ddl Aprea non è accettabile non perché non ci piace questo o quel comma ma perché è il manifesto di una scuola che non possiamo accettare. Che è così ovvio che nel consiglio di istituto di una scuola pubblica non ci possono sedere dei privati. Se qualcuno fa una donazione ora, con le regole attuali, a una scuola, per un evidente conflitto di interessi non può sedere nel consiglio di istituto. Cosa è successo? Pur nuova legge impone oggi una specie di tappetino rosso alle realtà del territorio. Chi pensa ai guadagni (tutti intesi comunque in senso materiale e non culturale) che si possono fare grazie a questi convitati rifletta sul fatto che nelle logiche economiche tutto è già stato pagato. E poi cosa ci fa un privato in un consiglio di istituto, pardon dell’autonomia, cosa ha che fare con la scuola pubblica. Non arreda ed è anche difficile pensare che se ne stia al suo posto, pronto solo a offrire il suo contributo, ad arricchire la scuola.
II
Forse mi sbaglio. Forse l’ipotesi 21 ore è naufragata insieme a quella delle 24 ore di fronte a una protesta inaspettata. Però all’idea che Profumo non aveva un piano B faccio fatica a crederci. Forse i deputati, i senatori, quelli che vanno alle Camere e qualcuno gli dice cosa devono votare (per esempio che Ruby è la nipote di Mubarak) e loro pasciuti automi giù a pigiare il tasto.
I professionisti delle decisioni, i tecnici no.
Quando l’ultimo governo Berlusconi si è insediato aveva un piano già pronto per tagliare 8 miliardi e mezzo da scuola e università. A ottobre, alla vigilia delle grandi manifestazione contro la riforma Gelmini, c’era ancora qualcuno che non sapeva l’esistenza di questo piano. Sospettare per tempo non sarebbe stato male.
Peraltro non si può fare a meno di notare che il piano 24 ore facesse acqua da tutte le parti – tecnicamente parlando – a cominciare da quel “a parità di stipendio” che non può minimamente essere compensato da 15 giorni di ferie non godibili per tutti. Come ho scritto e come ho letto se a regime, cioè imposte in modo sistematico, le 24 ore avrebbero permesso risparmi per 2 miliardi cancellando non so quanti posti di lavoro, ma non di certo 5000. L’intento, se c’era un intento, sarebbe stato quello di raschiare il fondo del barile, contando sull’elasticità del sistema e scontando le probabili resistenze.
E poi lavarsene le mani. Come a dire: noi il nostro lo abbiamo fatto. Tutto questo per me non è credibile.
La soluzione delle 21 ore, invece, è cristallina. Un moderato aumento di orario, anche se per molti resta incompatibile con i loro ritmi di lavoro, un incentivo economico da estrarre dal cappello al momento giusto per tacitare l’opposizione di molti docenti che non sono automi, ma neppure ben pasciuti. Ipotesi come un’altra. Però non è stata formulata da qualche paranoico: quando i signori Profumo e Rossi-Doria, sull’onda dei dubbi di una parte della maggioranza che li sostiene, hanno cominciato a parlare di ritirare le 24 ore, ci tenevano a precisare che la soluzione non sarebbero state le 21 ore. L’impressione è che siano state accantonate. Dopo le elezioni un governo con una forza dieci volte maggiore di questo potrà realizzare tutti i piani B, C, D che ha nel cassetto.
Questi piani hanno nome e cognome. Sono pronti da anni per essere utilizzati al momento giusto. Provo a fare un elenco, in ordine sparso: la riforma degli organi collegiali, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’eliminazione di un anno di scuola (la Moratti rendeva discrezionale la frequenza dell’ultimo anno, Berlinguer riduceva un anno di scuola primaria), la possibilità per i dirigenti di scegliere i docenti, l’introduzione di elementi di valutazione del “sistema” finalizzati a creare una fascia di insegnanti “premium” da contrapporre alla massa degli “ordinari”, l’irruzione dei privati e di logiche privatistiche nella gestione della scuola.
Impossibile non vedere la coesione tra questi piani. E non vedere che cosa c’entra l’aumento di orario. Nella scuola parcheggio è di certo possibile mantenere un tempo pieno svuotato di ogni contenuto formativo, è possibile immaginare di rilasciare gli studenti un anno prima del tempo dal momento che a quell’età le famiglie non sentono più così forte la necessità di tenerli a scuola. All’insegnante “premium” o meno che sia si chiede di diventare altro, di essere flessibile in termini di carichi di lavoro e di disponibilità a coprire il tempo scuola. In cambio gli si può concedere di insegnare di meno. Intrattenimento con qualche pillola di cultura, e molti quiz.
III
Un’ultima riflessione. L’idea che la ratio del ddl stabilità fosse semplicemente basata sulla necessità di risparmiare 183 milioni di euro (e che questo costituisse un vincolo insuperabile) era una grassa, untuosa ed enorme menzogna tant’è vero che se fosse andato a regime nella forma in cui era scritto, l’aumento di 6 ore a parità di stipendio avrebbe permesso risparmi di molto superiori agli spiccioli che diceva di voler recuperare. Basti pensare al regalo di 223 milioni alla voce scuole private per capire che non si tratta di far quadrare i conti.
La ratio dell ddl, è evidente, è del tutto ideologica: è prima di tutto, e in modo evidente, un travaso di risorse verso la scuola privata.
Ma è anche dettato dalla volontà di dare un colpo di martello alla scuola, screditando adeguatamente gli insegnanti davanti a un’opinione pubblica che così viene preparata per altri assalti.
Non è un caso che il ddl stabilità arriva insieme al rispolvero del ddl Aprea e ai rumores sempre più insistenti su valutazione, riduzione del tempo scuola e quant’altro.
Ma è anche un colpo di martello alla logica contrattuale. Crea un precedente: da oggi in poi facciamo come ci pare. A livello centrale, con una modifica arbitraria del contratto riguardante uno dei principi fondamentali nel lavoro: il tempo. A livello periferico, domani, con l’autonomia statutaria. Curioso: proprio nel momento in cui la classe insegnante sembra prendere coscienza, faticosamente, del proprio essere categoria, si studiano le modalità per stroncare ogni velleità di coesione, partendo proprio dal piano normativo.
Ma soprattutto il ddl stabilità si inquadra in un progetto, noto da tempo e già in parte attuato con le riforme degli ultimi anni: l’espulsione di tutti i precari dalla scuola pubblica. Anche su questo il confronto con quello che succede in altri paesi potrebbe essere istruttivo. In Spagna, l’anno scorso, con il ritorno al potere dei popolari dopo la parentesi Zapatero, sono state aumentate le ore da 18 a 20 e molti precari non solo hanno perso il lavoro (spesso si dimentica che un precario incaricato, specie se di lungo corso, è uno che quando non lavora, “ha perso il lavoro”), ma anche la speranza di poter lavorare in futuro, dato che la riorganizzazione tocca nel profondo gli organici dei docenti. In Gran Bretagna, a un’esigua minoranza di docenti adeguatamente pagati e regolarmente assunti corrisponde una massa di docenti “a contratto”, assunti a discrezione delle scuole e naturalmente sottopagati. Non è necessario andare negli Usa per fare confronti in ribasso.
(8/11/2012)