Gentile collega,
premetto: ho letto Scuola di classe perché mi è stato consigliato da un collega, probabilmente attirato dal titolo (ha confessato di non averlo letto, ma solo dopo). Stavo quasi per dire ingannato dal titolo. Ma forse le intenzioni di Roberto Contessi sono buone. E il libro solleva un problema reale, come sintetizzato dal sottotitolo: Perché la scuola funziona solo per chi non ne ha bisogno. Ammesso che ci sia qualcuno che non ha bisogno della scuola, si dovrà ammettere che alla scuola di classe basata sulla selezione (che premiava chi aveva i mezzi) è seguita la scuola del buonismo indifferenziato che garantisce successo formativo per tutti e livella tutto a un’anonima mediocrità. Nel testo non mancano le prove che le cose stiano effettivamente in questo modo, e neppure le proposte di soluzioni, anche se, necessariamente, soggettive e parziali. E non tutte originalissime, per la verità: lezioni partecipate con tutor, diverse forme di brainstorming, problem solving, progettualità, e anche l’alternanza scuola-lavoro, perché no?
I richiami a Bourdieu e a Don Milani, inseriti nelle conclusioni, dimostrano che il classismo nella scuola, la tendenza a premiare il conformismo piuttosto che a stimolare veri talenti, non è un problema di oggi. Su questo tema, dopo una stagione di riforme che non a caso venivano dal basso, l’immobilismo ha dominato la scuola, non solo in Italia. Anche, o forse più, in un’epoca di decisionismo politico come quella che, negli anni tra Berlinguer e la Giannini, ha prodotto almeno quattro riforme organiche della scuola, incidendo sulle risorse, sui cicli, sui piani di studio, sulla valutazione. Ora, al netto di una critica sferzante (o sprezzante, alcune pagine sembrano la riedizione di un pamphlet di Papini contro la scuola, memorabile il brano dove ti chiedi perché veniamo pagati per gli esami di stato) nei confronti delle cattive abitudini didattiche dei docenti, non mi sembra si possa dire che il decisionismo fino a Renzi compreso sia stato ispirato dalla volontà di una maggiore perequazione delle opportunità degli studenti, ma da esigenze di bilancio talvolta, non sempre, accompagnate da infimi contentini o strombazzanti promesse. Il principio per cui
non esiste nessuna garanzia che un maggior numero di ore per materia, un minor numero di alunni per classe, meno informatica, niente progetti, nessuna apertura alla lingua straniera e un congruo aumento di stipendio possano invertire un sistema tarato e consolidato sulla conferma del capitale culturale di ogni ragazzo
deve essere invertito: c’è una ragionevole certezza che se il tempo scuola diminuisce o diventa altro, il numero degli alunni per classe aumenta, i mezzi tecnici scarseggiano, le competenze degli insegnanti vengono annacquate, lo svantaggio degli alunni deboli rispetto agli alunni forti, e le sanatorie, siano destinati ad aumentare. Ma anche internet e inglese non se la passano bene, la riforma Gelmini ha abolito il Pni e diminuito le ore di inglese un po’ dappertutto, in compenso ha introdotto il CLIL (Content and Language Integrated Learning, anche io sono capace di sciogliere gli acronimi), che è un nuovo modo di imparare le lingue in modo dilettantesco. Aria fritta, in sostanza, e dispersione di risorse e energie. Renzi e la buona scuola non hanno fatto neppure un passo indietro. In compenso ne hanno fatti due o tre in avanti. La riforma del sostegno, prevista da una delle nove deleghe della legge 107, problematica di stringente attualità, segue una prosaica logica economica di tipo riduzionista e ricade guarda caso proprio su una categoria di studenti svantaggiati rispetto al bisogno di scuola. I comitati di valutazione che dovrebbero premiare i docenti meritevoli, scrivi, sono l’inizio di qualcosa. Ma non sono un buon inizio. I premi nel primo anno di attuazione della legge 107 sono stati distribuiti a caso o a chi aveva già incarichi retribuiti, come si poteva prevedere. A meno che non si volesse premiare chi ha assicurato il successo formativo e scolastico degli studenti (quelli che di solito non hanno bisogno della scuola), o chi ha contribuito al miglioramento della scuola (pitturando il pomeriggio, non è un modo di dire) o chi eccelle nell’innovazione didattica e metodologica: accendere e spegnere la lim, caricare file sulla lim, proiettare film sulla lim, scaricare file sulla chiavetta usb. Abilità alla portata di casalinghe prestate all’istruzione ma, in compenso, molto Social Hub.
Anche la (scarna) bibliografia è inaffidabile come supporto alle intenzioni del libro. Abravanel, che chiama gli studenti “clienti dell’istruzione”, teorizza una scuola tecnocratica dove regna la legge del più forte (e, il va sans dire, di chi ha disponibilità economiche), la Mastrocola, di cui non ho letto Togliamo il disturbo, ma l’acclamato, a suo tempo, best seller La scuola raccontata al mio cane, non fa mistero di aderire alla massima di Mortillaro che vuole mandare a vangare in cortile gli studenti che non hanno voglia di studiare, che non sono la futura classe dirigente. E ancora, Roberto Casati, autore di un saggio molto critico nei confronti della digitalizzazione della didattica (da lui definita colonialismo digitale) viene piegato a exemplum delle magnifiche sorti e progressive che le nuove tecnologie possono assicurare a una didattica inclusiva. Ma vale la pena rileggere un brano delle conclusioni dal citato Contro il colonialismo digitale, per capire che la lunghezza d’onda non è proprio la stessa di Scuola di classe:
La missione della scuola, fino a prova contraria, non è di rincorrere la novità; è di istruire. Istruire significa anche dare la possibilità che esiste e che vale la pena di conoscere un teorema di logica, La cognizione del dolore o l’Offerta musicale. Non perché questo serva necessariamente a qualcosa. Ma perché è parte di quello che gli esseri umani hanno saputo fare di meglio, ed è un peccato non saperlo.
Le rilevazioni dell’Invalsi, beninteso in mancanza di meglio, sono assunte come prove inconfutabili della sperequazione di possibilità tra studenti ma anche del ritardo culturale in cui versa l’istruzione italiana. Le prove Invalsi però, in nessun ordine di scuola dove vengono effettuate, hanno la pretesa di misurare il livello culturale degli studenti ma solo abilità e competenze in italiano e matematica, che non dicono nulla su abilità e competenze che ognuno può acquisire nella vita reale, misurate tra l’altro con strumenti che molti critici (non i soliti detrattori, allergici a tutte le novità, ma anche autorevoli pensatori liberal) da anni denunciano come incongrui anche in relazione alle finalità dichiarate. La bibliografia potrebbe essere corposa, ma può bastare una sola parola magica per intendere il profondo divario tra le abilità oggetto di indagine e la cultura (e l’intelligenza): quiz. E non va tralasciato che la somministrazione delle prove genera varie forme di malcostume, la più nota, e didatticamente devastante, è quella del teaching to text, che invece sembra tu voglia incentivare, dove scrivi che “di solito non vengono insegnate strategie di risposta ai test”.
Ma sarebbe forse meglio se ti chiedessi cos’è l’Ocse (che l’economista Luciano Gallino ha definito “affiliazione di classe”) o l’Invalsi, ente di ricerca dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, cioè un istituto privato, ma anche chi sono gli intellettuali che siedono nei consigli di Trellle o della Fondazione Giovanni Agnelli, quali sono le loro finalità e da dove nasce il loro interesse per la scuola pubblica. Pensiamo che la finanza possa essere riformata dai banchieri a vantaggio del 99 per cento della popolazione mondiale che detiene un quinto delle ricchezze o iniziamo a pensare che le risorse per cambiare le cose debbano, possano essere trovate dentro la scuola?
Infine, forse sembrerà una questione di poco conto, spiace leggere in un libro che pretende di essere un’analisi scientifica sulla scuola, pubblicato da un editore importante, con redattori in grado di controllare i riferimenti normativi, che Berlinguer ha abolito gli esami di riparazione a settembre (aboliti da D’Onofrio, ministro del primo governo Berlusconi, nel 1994), che fino ad una certa data gli studenti dell’ultimo anno della scuola superiore venivano ammessi “con riserva” all’esame di stato se avevano insufficienze in alcune materie (e non secondo il giudizio, sovrano, del consiglio di classe), e che in uno scrutinio il dirigente può nominare genericamente come presidente un professore di sua fiducia (uno qualsiasi, e non un docente del consiglio di classe). Sviste che denunciano una conoscenza della politica scolastica negli ultimi venti-trenta anni quanto meno frammentaria. Approssimazione che porta a bollare tra l’altro i movimenti democratici di docenti (genitori e studenti non sono considerati) come fastidiosi detrattori del nuovo che avanza.
Ma già, le conoscenze non sono importanti, dobbiamo diventare tutti esecutori: “L’intelligenza non risiede tanto nelle conoscenze acquisite, quanto nella capacità di saperle utilizzare”. O come diceva, ormai quasi alla scadenza del mandato la ministra Giannini: “i docenti non trasmettono conoscenze, ma insegnano a imparare. Perciò non occorrono più docenti che sappiano insegnare ciò che hanno studiato o che studiano ancora”. Con buona pace di chi ha bisogno della scuola e di chi, invece, è nato imparato.
1 commento su “FEDERICA CAPPUCCIO Chi ha bisogno della scuola? (su “Scuola di classe” di Roberto Contessi)”