FËDOR DOSTOEVSKIJ Bisogna cercare di passare inosservati

Da «Delitto e castigo»

Per strada faceva un caldo terribile, non si respirava, la gente spingeva, c’erano dappertutto impalcature, mattoni, calce, polvere e quel tanfo tipicamente estivo ben noto ai pietroburghesi che non possono permettersi una casa fuori città. Tutto ciò aveva scosso i nervi già provati del giovane. L’odore insopportabile che proveniva dalle bettole, che in quella parte della città erano particolarmente numerose, e gli ubriachi che gli capitavano di continuo sotto gli occhi, benché fosse ancora giorno, completavano quello spettacolo triste e desolante. Per un istante sui tratti delicati del suo viso s’impresse una smorfia di profondo disgusto. A proposito, era un giovane molto bello, aveva magnifici occhi scuri, capelli castani, era più alto della media, snello, slanciato. Presto si fece profondamente assorto, anzi, pareva quasi assente, camminava senza notare ciò che gli stava attorno, che del resto non lo interessava affatto. Di tanto in tanto farfugliava qualcosa fra sé, per quella sua tendenza a parlar da solo che egli aveva appena notato in sé stesso. Ma in quel momento si era reso conto che i suoi pensieri si stavano facendo confusi e che era molto debole, erano due giorni che non mangiava quasi nulla.

Era vestito così male che persino la persona più trasandata si sarebbe vergognata d’uscire in pieno giorno, per strada, con quegli stracci addosso. In quel quartiere, del resto, c’era poco da far colpo con vestiti eleganti. La vicinanza della piazza Sennaja, la presenza di certi localini e in generale la popolazione che abitava in quella zona, soprattutto operai e artigiani ammassati in vie e viuzze a ridosso del centro di Pietroburgo, animavano il paesaggio di tipi tali che sarebbe stato strano stupirsi dell’aspetto di una persona. D’altronde nel suo animo, nonostante tutto il suo amor proprio tipicamente giovanile, si era accumulato tanto di quel disprezzo che non provava più nessuna vergogna per i suoi stracci. Certo, se avesse incontrato qualche conoscente, qualche suo vecchio compagno, che del resto non gli faceva affatto piacere vedere, sarebbe stato diverso… Eppure, quando gli passò accanto un ubriaco, che chissà per quale ragione si trovava su un enorme carro trainato da un gigantesco cavallo da tiro, e gli gridò a squarciagola, indicandolo: «Ehi, tu, cappellone tedesco!», egli si arrestò di colpo e, istintivamente, si afferrò il cappello. Era un cappello alto, a cilindro, di quelli di Zimmermann, ma era tutto liso, stinto, pieno di buchi e di macchie, senza falde e orribilmente piegato da una parte. Fu colto da una sensazione che non era vergogna, era qualcosa di diverso, era quasi spavento.

‘Lo sapevo!’ borbottò stizzito. ‘Era chiaro! È proprio questo che bisogna evitare! Sono queste cose, queste fesserie, questi dettagli insignificanti che possono rovinare tutto. È ovvio, è un cappello che dà troppo nell’occhio… è un cappello ridicolo, per questo lo notano tutti… Con i miei stracci devo mettere assolutamente un berretto, una cosa qualsiasi, non questo orrore. Questi non li porta più nessuno, si notano a un miglio di distanza e rimangono impressi, sì… il fatto è che poi rimangono impressi ed è un indizio. Bisogna cercare di passare inosservati… i dettagli, i dettagli sono la cosa importante… sono proprio questi a rovinare sempre tutto…’.

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