Da «Lettere contro la guerra»
L’attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo agli afghani1, ma in verità – senza che ce ne accorgiamo – anche a noi stessi, ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo e il tornaconto personale il solo metro di giudizio. Senza tempo per fermarsi a riflettere, preso sempre più nell’ingranaggio di una vita altamente competitiva che lascia sempre meno spazio al privato, l’uomo del benessere e dei consumi ha come perso la sua capacità di commuoversi e di indignarsi. E tutto concentrato su di sé, non ha occhi né cuore per quel che gli succede attorno.
È questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico e insensibile, egoista e politicamente corretto – qualunque sia la politica –, prodotto della nostra società di sviluppo e ricchezza, che oggi mi fa paura quanto l’uomo col Kalashnikov e l’aria da grande tagliagole che ora è ad ogni angolo di strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi dello stesso fenomeno: quello dell’uomo che dimentica d’avere una coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell’universo e diventa il più distruttivo di tutti gli esseri viventi, ora inquinando le acque della terra, ora tagliandone le foreste, uccidendo gli animali e usando sempre più sofisticate forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia. Per questo, a pensarci bene, l’unico momento di gioia che ho avuto in questo paese è stato quando ci son passato sopra. Dall’oblò di un piccolo aereo a nove posti delle Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l’uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna traccia di sé. Da lassù il mondo era semplicemente meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza patrie da difendere.
Ho pietà di coloro che l’amore di sé
lega alla patria;
la patria è soltanto
un campo di tende in un deserto di sassi
dice un vecchio canto himalayano citato. […] Se anche ci fossero state, quelle tende non le avrei viste.
Per stare al sicuro l’aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra, ora ocra ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d’un vecchio gigante; i fiumi le sue vene. Dinanzi, come un mare in tempesta che improvvisamente fosse diventato di ghiaccio, avevamo la barriera innevata dell’Hindu Kush, «l’assassino di indù», a causa delle centinaia di migliaia di indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come schiavi verso l’Asia centrale dai loro conquistatori moghul […]. Uno dei momenti che non dimenticherò di questi giorni a Kabul è stata la visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva suggerito il «venditore di patate». Era venerdì, giorno di festa per i musulmani, e qualche decina di persone aveva pagato i 2000 afghani (0,04 euro) del biglietto per entrare a vedere la collezione più patetica e misera di animali che uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e purulento, un vecchio leone orbo che non sta più sulle gambe e a cui è morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aquile spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell’Alleanza del Nord, prima che arrivassero i talebani, lo zoo è stato per un po’ la linea del fronte; ci son cadute sopra bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di scappare. I lupi non sono stati così fortunati e in una gabbia puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno degli avanzi di carne, ne sono rimasti due vecchi esemplari.
Sono lì da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono. Si conosco – no bene, eppure strisciano in continuazione, guardinghi, contro le pareti ormai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una piccola folla di uomini che forse s’illudono d’essere diversi e non si rendono conto d’essere, anche loro, nella gabbia dell’esistenza solo per morirci.
Tanto varrebbe allora viverci in pace.