Volerelaluna, 8 gennaio 2025
Il ministro Valditara ama presentarsi nella veste di pacato uomo di cultura prestato alla politica, elegante nella sua giacca scura, ravvivata dalla spilla che raffigura lo storico simbolo della Lega, il guerriero con la spada sguainata forse da identificarsi con il mitico Alberto da Giussano che, secondo leggenda più che secondo ricostruzione storica, condusse alla vittoria la sua “Compagnia della morte” nella decisiva battaglia di Legnano contro il Barbarossa oppressore.
Mi chiedo quanti ragazzi conoscano oggi il nome di Barbarossa, di Alberto da Giussano o i versi famosi di Carducci che, dall’età risorgimentale sino al momento in cui persino Carducci viene quasi messo al bando, hanno costituito la croce e, talvolta, la delizia di pre-adolescenti ancora privi del proseguimento naturale del loro cervello (smartphone o computer che sia). Sarà per questo motivo – ognuno di noi è legato alla propria esperienza di vita – che il guerriero che brandisce la spada non mi sta così antipatico e innesca un flashback? «Milanesi, fratelli, popol mio! / Vi sovvien dice Alberto di Giussano / Calen di marzo?».Dopo aver capito (sono in quinta elementare) cosa significhi “sovvien” e “Calen di marzo” bisognava sforzarsi di ricordare di cosa si dovesse ricordare il popolo milanese – e lo sforzo andava dalla strofa VI e alla strofa XI, unico aiuto l’anaforico “vi sovvien”. Ce la si faceva, perché i bambini hanno una memoria fresca e qualcosa, poi, restava impresso per sempre. Per esempio, la descrizione di Alberto, l’eroe, alto, possente: «È la sua voce come tuon di maggio». L’eroe che dopo aver descritto i soprusi subiti dai lombardi si copre il volto con le mani e comincia a piangere: «in mezzo al parlamento / Singhiozzava e piangea come un fanciullo». Questo pensavo mentre attendevo che Valditara cominciasse a parlare in una sua recente comparsa televisiva.
Il ministro disteso e quasi sorridente si era appena riappacificato con il padre di Giulia Cecchettin e non pareva lo stesso che, nel novembre del 2022, aveva teorizzato l’umiliazione come metodo educativo volto a promuovere il “riscatto”, la “maturazione”, “la responsabilizzazione”. Non sembrava nemmeno la stessa persona che aveva cavalcato la spinosa questione dell’uso dello smartphone in classe arrogandosi il merito di averlo messo al bando (nelle primarie e nelle secondarie di primo grado) e mettendo tra parentesi il fatto che la prima circolare su questo argomento era del 2007 e portava la firma del ministro Fioroni, segno che le grida contro lo smartphone non avevano avuto molto successo. Ma tant’è: il placido Valditara tesse le lodi di ciò che ha fatto, dimostra di essersi reso conto che esiste una vasta letteratura scientifica che mette in guardia contro i danni cerebrali prodotti dall’uso dei device digitali in età precoce ma esalta, senza cogliere la contraddizione, l’introduzione dell’intelligenza artificiale (probabilmente per supplire il deficit di quella naturale) e la digitalizzazione delle scuole.
Come per altri aspetti importanti della vita del Paese, manca una visione d’insieme della scuola e si procede con il piccolo cabotaggio delle “riforme” che bollono in pentola da un ventennio e che non sono ancora andate a segno. L’esempio più clamoroso ce lo fornisce la cosiddetta riforma dei tecnici-professionali (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/07/4-anni-piu-2-negli-istituti-tecnici-e-professionali-come-tornare-a-una-scuola-di-classe/). Secondo il ministero già nell‘anno appena chiuso la sperimentazione ha riscosso successo. E che successo! Sul sito del MIM il 18 febbraio 2024 si leggeva quanto segue: «I dati finali (delle iscrizioni, ndr) evidenziano una accresciuta preferenza per i percorsi tecnici e professionali della filiera 4+2. In dettaglio, la percentuale di scelta dei nuovi quadriennali di filiera rispetto al totale degli iscritti all’istruzione tecnica è salita allo 0,89% e allo 1,06% per il professionale. Il dato conferma inequivocabilmente il gradimento per la sperimentazione della nuova filiera etc». Decriptiamo: 176 istituti (su un totale di circa 1.700) intendono partecipare, nell’anno scolastico 2024-2025, alla sperimentazione del “4+2”. Non è proprio un gran successo.
Tra l’altro, anche in questo caso, come per il divieto di usare il cellulare, il ministro non si inventa nulla di nuovo. Gli esperimenti precedenti di riduzione da cinque a quattro anni della scuola superiore, con la scusa che così si lavora meglio e si impara di più (?), l’aveva già prospettata l’allora ministro Profumo. Nell’atto di indirizzo del febbraio 2013 si proponeva di «adeguare la durata dei percorsi di istruzione agli standard europei. Occorre superare la maggiore durata del corso di studi in Italia procedendo alla relativa riduzione di un anno». Immediatamente dopo di lui era intervenuta (timidamente) la ministra Carrozza la quale aveva concesso l’autorizzazione di sperimentare il liceo di 4 anni a un liceo di Brescia (tanto per dirla tutta, nel settembre 2014 dichiarata poi illegittima dal TAR del Lazio, che non tenne troppo conto delle motivazioni dell’esperimento, tutte volte a favorire “l’eccellenza”). In realtà la vulgata per convincere il popolo bue della bontà della riduzione di un anno del corso di studi della secondaria superiore la raccontavano efficacemente i siti per lettori non specialisti. Ad esempio: «Una scuola superiore di 4 anni la chiedono le aziende perché nonostante le riforme degli ultimi 20 anni la formazione superiore stenta a stare al passo con un mondo del lavoro che cambia sempre più velocemente». Una bella sintesi delle sciocchezze rispetto al rapporto tra scuola e mondo del lavoro che gli “esperti” ci propinano da decenni. Comunque, dopo Carrozza, il sentiero luminoso della riduzione a quattro anni della scuola superiore non si perdeva nel nulla; tant’è che nel 2017 la ministra Fedeli emanava un decreto ministeriale con lo scopo di verificare la «fattibilità della riduzione di un anno dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado quinquennali dei licei e degli istituti tecnici». Mancavano i professionali, già brutalizzati da altre “riforme”. Dopo Valeria Fedeli, ci fu un momento di calma (Bussetti, Azzolina, Fioramonti ebbero da occuparsi di altre urgenze). Ma la lava ribolliva sotto una fredda crosta: arrivò il turno di Bianchi, che riprese in mano la situazione e cercò di agire in modo deciso, rispolverando l’idea di accorciare il percorso di studi superiori a quattro anni. Nel 2018/2019 la sperimentazione aveva toccato 192 scuole (127 statali e da 65 paritarie, di cui 144 licei e 48 istituti tecnici); nell’anno seguente furono autorizzate 175 classi. Successo senza pari! I rinnovi, però, si ridussero a 98 (parziale successo?). A fronte di questi numeri scarsi, che dovrebbero portare a un ripensamento, cosa fa Bianchi? Estende a una platea di 1000 scuole la possibilità di “sperimentazione” dei percorsi di istruzione di secondo grado in 4 anni. Il flop è totale: delle 1000 scuole in cui il Ministero era disposto a tentare la sperimentazione, soltanto 243 si dimostrano interessate al “diploma in quattro anni”. Nulla si sa, sino ad oggi, di monitoraggio dei risultati raggiunti, ancorché questi fossero esplicitamente previsti.
Filiera formativa tecnologico-professionale 4+2: almeno la definizione l’ha (quasi) inventata Valditara. Ora, ci chiediamo, cosa può fare il povero ministro Valditara se non proseguire su questo strada già tracciata dai suoi predecessori? Valditara fa del suo meglio: si atteggia a novello Cristoforo Colombo e scopre il continente della “filiera formativa tecnologico-professionale” e la formula suggestiva del “4+2”. Si sa, 5-1 = 4; 4+2 = 6. Tutto è suggestivo, nella legge 8 agosto 2024, n. 121. Alcuni passaggi sono quasi poetici. Questo, per esempio: «gli accordi di cui al primo periodo possono prevedere altresì l’istituzione di reti, denominate “campus”, eventualmente afferenti ai poli tecnico-professionali, laddove presenti sul territorio». Certo, è rassicurante sapere che se i “poli tecnico-professionali” non sono presenti sul territorio non ce li dobbiamo per forza inventare. Quanto alle “reti denominate campus” non so cosa dire. Chi può partecipare a questa kermesse? «I soggetti che erogano percorsi di istruzione e formazione professionale e percorsi di IFTS, gli ITS Academy, gli istituti che erogano i percorsi sperimentali di cui al comma 2, le altre istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado, le università, le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica e i predetti altri soggetti pubblici e privati, nonché le modalità di integrazione dell’offerta formativa, condivisa e integrata, erogata dai campus stessi, anche in raccordo con i campus multiregionali e multisettoriali». Un vero delirio, che fa immaginare una sorta di superfetazione dannosa e sconclusionata: “modalità di integrazione dell’offerta formativa condivisa e integrata” che balla un fantasmatico valzer con i “campus multiregionali e multisettoriali”, quando, ad oggi, non esistono ancora nemmeno “le reti denominate campus”.
Non vogliamo qui analizzare i molti limiti del progetto Valditara: ci interessa soltanto mettere in luce la scarsa qualità di scrittura della legge e la conseguente confusione concettuale e anche evidenziare la sostanziale continuità con i tentativi precedenti di scuole quadriennali. Valditara imita i suoi predecessori in tutto, anche nel trionfalismo. La sperimentazione partita quest’anno tocca 171 istituti tecnici e professionali su un totale di circa 1700. Il Ministro l’ha spacciato come un successo, nonostante l’evidente modestia dei risultati. Si giunge sino al ridicolo. Ripetiamo quel che si legge sul sito del Ministero: «La percentuale di scelta dei nuovi quadriennali di filiera rispetto al totale degli iscritti all’istruzione tecnica è salita allo 0,89% e allo 1,06% per il professionale»: difficile gridar vittoria di fronte di fronte a questi numeri, ma Valditara non indietreggia.
Tutti coloro che sono interessati a che la scuola funzioni bene, in primo luogo i docenti e anche i dirigenti, dovrebbero levare compatti gli scudi contro un tal modo di governare quello che, per Calamandrei, era un organo costituzionale. I mali endemici della scuola sono molti, ma qui ci limitiamo ad indicarne uno: la scuola non è più, da decenni, un luogo di appianamento delle disuguaglianze. Anno dopo anno sta assumendo un aspetto classista sempre più spiccato. Prova ne sia che la riduzione a quattro anni il ministro la fa iniziare dal segmento più debole: i suoi predecessori, almeno, non avevano fatto differenza tra licei, tecnici, professionali. Come mai, nei professionali, pochissimi studenti hanno un genitore laureato mentre nei licei classici i figli di genitori laureati abbondano? Abbiamo proprio bisogno, affinché il nostro sia un paese “moderno” di tornare a una sorta di “avviamento”, di tornare perciò ad un periodo che precede il 1962 (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/23/la-destra-e-la-scuola-dividere-gerarchizzare-impoverire/)? Non è vergognoso che in Italia non si sia innalzata l’età dell’obbligo scolastico almeno sino alla maggiore età?
Insomma, o si immagina e si opera affinché la scuola sia davvero per tutti o, come si sta facendo da decenni, si favoleggia di una “scuola del merito e dell’eccellenza” che altro non è se non una scuola del privilegio e della conferma dell’esistente. Nessun educatore dovrebbe sopportare una tal deriva, a meno che da educatore non voglia retrocedere ad istitutore, e cioè a servo di chi detiene il potere.