Studium educationis, XXV, 2 dicembre 2024
Il costrutto di “competenza”, rappresenta una vera rivoluzione per la scuola e va rimeditato criticamente attraverso l’aiuto di altre dimensioni, quali quelle culturale, storica, politica ed economica.
In prima battuta c’è un aspetto linguistico del termine competenza che non è trascurabile, ovvero la sua connotazione positiva che abbassa ogni anticorpo verso questo termine. Chi infatti è a favore dell’incompetenza? Chi vorrebbe farsi operare da un chirurgo incompetente? Chi vorrebbe farsi aggiustare il lavandino da un idraulico incompetente?
Cercherò di risemantizzare questo termine; un termine che nella scuola compare da poco più di 10 anni, in quanto prima era associato a professioni ed attività connotate da una componente pratica.
In questa risemantizzazione mi farò aiutare da M. Foucault e dal suo Ordine del discorso. Secondo questo Autore, ogni concetto, ogni discorso non fluttuano nel vuoto e non vengono compresi grazie alla loro autopoieticità, ma solo se si inseriscono all’interno di un ordine che li significa, che li contestualizza e ne dà il senso. Oggi quest’operazione è necessaria, soprattutto per noi insegnanti che con le parole ci lavoriamo. Le parole sono fondamentali, perché costruiscono mondi e perciò il loro uso deve essere consapevole, perché se le usiamo alla stregua di termini tecnici ci facciamo operatori inconsapevoli di ideologia, co-struendo mondi decisi da altri.
Mi propongo di individuare l’ordine del discorso che sta dietro al costrutto di competenza così come viene usato oggi; un ordine che permea tutta la scuola e che ha subìto una significativa trasformazione negli ultimi decenni. Così intesa, la competenza è la cornice che dà un senso unitario alle tante parole sulla scuola che sembrano slegate e disorganiche. Per svolgere quest’operazione prenderò come riferimento la Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 22 maggio 2018, nella quale si afferma proprio il costrutto di competenza nella scuola. Che cosa dice questo documento? E prima ancora, da chi è stato redatto? E col “chi” non mi riferisco ai nomi degli estensori, ma da quale organo. Il Consiglio dell’Unione europea ha potere legislativo ma esso è composto dai ministri dei vari Stati europei. Dunque il potere esecutivo assorbe anche quello legislativo, in una torsione funzionale. Se il potere legislativo si caratterizza per la deliberazione a seguito della dialettica tra le molte e diverse parti della società, l’esecutivo ha di mira la realizzazione dello scenario frutto di questa dialettica. L’esecutivo lavora su di uno scenario già dato. Ma se il potere legislativo viene esercitato da quello esecutivo, chi stabilisce obiettivi e finalità, dato che l’esecutivo non è un potere rappresentativo ma pragmatico?
Per avere meglio il polso della situazione, conviene riprendere qualche estratto della Raccomandazione. A pagina 1 si legge:
ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni del mercato del lavoro. Il documento afferma inoltre il diritto di ogni persona a un’assistenza tempestiva e su misura per migliorare le prospettive di occupa-zione o di attività autonoma, alla formazione e alla riqualificazione, al proseguimento dell’istruzione e a un sostegno per la ricerca di un impiego. Promuovere lo sviluppo delle competenze è uno degli obiettivi della prospettiva di uno spazio europeo dell’istruzione che possa sfruttare a pieno le potenzialità rappresentate da istruzione e cultura quali forze propulsive per l’occupazione, la giustizia sociale e la cittadinanza attiva e mezzi per sperimentare l’identità europea in tutta la sua diversità. È necessario che le persone possiedano il giusto corredo di abilità e competenze per mantenere il tenore di vita attuale, sostenere alti tassi di occupazione e promuovere la coesione sociale in previsione della società e del mondo di lavoro di domani. Sostenere nell’intera Europa coloro che acquisiscono le abilità e le competenze necessarie per la realizzazione personale, la salute, l’occupabilità e l’inclusione sociale, con-tribuisce a rafforzare la resilienza dell’Europa in un’epoca di cambiamenti rapidi e profondi.
La prima osservazione importante da portare all’attenzione è la chiave linguistica, che associa espressioni di palese matrice economicista ad altre di stampo umanistico (giustizia sociale etc.). La contraddizione è solo apparente, perché le seconde, quelle di stampo umanistico, vanno interpretate alla luce delle prime, dalle quali dipendono; se mancano gli assunti economicisti, anche le seconde crollano.
Qual è il contesto nel quale si inserisce il documento? Esso è quello della concorrenza internazionale più affilata, nella quale l’uomo è inteso come capitale umano da sfruttare affinché il sistema Paese sia recettivo per le industrie e si finanzi ai tassi più bassi nelle piazze finanziarie mondiali; sul fronte interno, l’Unione a 27 Paesi ha creato un mercato unico a partire da condizioni assolutamente disomogenee -come il costo del lavoro in Polonia rispetto alla Francia- e così si deve agire sugli individui affinché queste disparità non compromettano la stessa Unione. Pertanto il bene del singolo è erogato dal sistema nel quale questo singolo deve essere incluso e ne dipende. Istruzione e sapere sono dunque strumenti utili a tal scopo. Già il Consiglio europeo di Lisbona del 1999 affermava che l’Europa deve diventare la più grande “economia della conoscenza”; con quest’ultima che è complemento di specificazione.
Un altro passo significativo del Documento afferma che “è necessario che le persone possiedano il giusto corredo di abilità e competenze per mantenere il tenore di vita attuale, sostenere alti tassi di occupazione e promuovere la coesione sociale in previsione del mondo del lavoro di domani”. È chiaro come qui non vi sia l’uomo al centro, ma il mantenimento di un modello sociale predefinito; in questo è un documento conservatore. La scuola delle competenze si inserisce in questo scenario, subendo un cambio di funzione, ovvero diventando un organo riproduttore di questo status quo, che deve essere garantito nel tempo.
Il costrutto di competenza diventa così la cornice che lega e dà un senso di unità a tutte le parole che si pronunciano quando si parla di scuola oggi. Senza questa cornice il quadro risulta sfuocato ed è più facile che i veri obiettivi rimangano occulti.
Il concetto di competenza, anche se è stato formalizzato solo da pochi anni, sottende tutte le politiche scolastiche europee da metà anni ’90 in poi, dal Libro Bianco, all’Autonomia etc.; esso è il punto di svolta che segna il passaggio dalla scuola delle conoscenze a quella delle competenze. La competenza è caratterizzata dal fatto che lo scenario da raggiungere è prefissato all’inizio. Con la competenza si sa in anticipo quale sarà il risultato che i miei alunni dovranno ottenere. Il punto di arrivo è così oggettivato a priori e non ammette prosecuzione. La competenza, inoltre, si esaurisce nella dimensione strumentale dell’uso (lo vediamo con la lettura delle Linee guida STEM); il passato, con la sua alterità, è un inutile e pesante orpello, perché nella competenza non c’è altra dimensione temporale se non il presente e l’appiattimento su di esso. Questo la differenzia enormemente dalla conoscenza, in quanto essa è una base policentrica, multiforme e diacronica senza punti di arrivo. Tale base va poi rielaborata dal soggetto che così la trasforma in cultura attraverso l’assimilazione con la sua personalità e per questo resta aperta, tanto nell’uso quanto nella sua ulteriore rielaborazione. La conoscenza amplia lo sguardo ed apre alla possibilità di mettere in discussione il mondo esistente, di porre in questione la stessa domanda, non producendo risposte attese. Con il costrutto di competenza sembra che questo non si debba fare. La conoscenza ha inoltre una dimensione di interiorità – in cui non tutto è visibile, perché carsico – che la differenzia dalla competenza, la quale è “pornografica”: tutto è visibile e giocato sul piano dell’esteriorità, del risultato, della performance.
Altro aspetto che caratterizza la competenza è la frammentazione. Essa è portatrice di una visione modulare e rapsodica, dove ogni modulo è indipendente e va a giustapporsi ad un altro, completo ed esaustivo in sé. Questo perché le competenze sono legate a doppio filo a scenari in rapido cambiamento e la competenza che serve oggi non sarà più quella di domani. La competenza è una sommatoria di risultati isolati, ognuno valido per sé esteriormente, senza necessariamente un corrispettivo interno. Cosa sono le UDA (unità didattiche di apprendimento) se non questo? La competenza procede dunque per giustapposizione di blocchi, al pari delle informazioni così come di esse ne parla Byung Chul Han, senza quella continuità ed unità che caratterizza la conoscenza e l’autonomia. Ecco che nella scuola compaiono plurime educazioni, quali quella all’affettività, alla sessualità, all’imprenditorialità, al codice della strada, civica etc.: ovvero obiettivi esteriori e separati da raggiungere di volta in volta senza quell’unità data dalla cultura associata alla personalità, che dà autonomia e capacità di soluzione autonoma ai problemi, senza essere etero guidati da una formazione comportamentale pronta all’uso che forma utilizzatori e consumatori. Ciò che conta, nella scuola delle competenze, è il criterio quantitativo, non quello qualitativo. Afferente e accrescitrice di questa frammentarietà, è la scelta politica di finanziare sempre più l’istruzione attraverso bandi e fondi legati a progetti. Essi tolgono ogni continuità, spostando di volta in volta l’obiettivo in modo depoliticizzato e costringendo soggetti ed istituzioni ad adattarsi, in base alle regole d’ingaggio di volta in volta definite.
Altro aspetto significativo nella distinzione tra conoscenza e competenza, è la dimensione temporale. La competenza deve produrre immediatamente un risultato. La conoscenza presenta invece una sfasatura temporale tra un prima, ovvero l’acquisizione della conoscenza, e un dopo, ovvero il suo usarla e trasformarla liberamente in relazione a fattori variabili. Ed è proprio questa sfasatura temporale che è sorgiva di libertà (Biesta parla di interruzione). Con l’immediatezza della competenza scompare la libertà. Perché la scuola delle competenze non deve immaginare e creare nuovi mondi, ma solamente implementare, attraverso un fare che non mette in discussione il potere, ciò che già vi è di dominante. Significativo, relativamente al tempo, un passaggio del Documento, a p. 2 che afferma: “nell’economia della conoscenza, la memorizzazione di fatti e procedure è importante, ma non sufficiente per conseguire progressi e successi”. Qui, dietro la memorizzazione, si vuole tagliare il ponte con la trasmissione delle conoscenze per concentrarsi “sulla risoluzione di problemi”, già dati e la conseguente affermazione di un paradigma esecutivo. Perché l’unico orizzonte da prendere in considerazione è il presente (non avrai altro presente all’infuori di questo, sembra dirci il Documento).
Connesso al tema della libertà, vi è anche quello dell’autorità e del controllo. Perché se il punto di arrivo è prefissato e da raggiungere da parte di tutti, l’autoritarismo che impone è tollerato. Se infatti una e una sola è la via, questa può benissimo essere imposta. Vediamo come nella scuola dell’autonomia non si parli più di comunità educante permeata di egualitarismo, bensì di verticismo, di staff, di figure intermedie, di middle management: ovvero una catena discenditiva di ordini fondati sull’autorità artefatta.
Con ciò si spiega anche la cogente prescrittività della didattica attuale, associata alla scomparsa della libertà di insegnamento. Questo perché, dal momento che se esiste uno ed un solo punto di arrivo, che assorbe tutto, esisterà un’unica via tracciata, la più breve, per agguantare nel modo più efficace questo punto di arrivo. Una didattica i cui criteri sono l’efficacia e l’efficienza verso il risultato prefissato.
Quale docente si afferma in tutto ciò? Se il punto di arrivo è già prescritto e non da trovare/elaborare dialetticamente, ecco che il docente non può che essere un facilitatore che rende agevole il raggiungimento di quanto così prescritto; facilitatore è termine che oramai nella nuova scuola è largamente in uso. Così, a p. 2 della Raccomandazione si afferma che
lo sviluppo delle competenze chiave, la loro convalida e l’erogazione di istruzione, formazione e ap-prendimento orientati alle competenze dovrebbero essere promossi dalla definizione di buone pratiche per sostenere il personale didattico nella sua attività e migliorarne il livello, per aggiornare i metodi e gli strumenti di valutazione e convalida e per introdurre forme nuove e innovative di insegnamento e apprendimento.
Si tratta di rendere insignificante il docente, in quanto se il risultato da raggiungere è predefinito, basta l’intelligenza artificiale o una memoria esterna da cui cercare i dati, come già metteva in evidenza Jean-Francois Lyotard in La condizione post-moderna (1979). Questo docente, quando l’orizzonte diviene finito, non può essere che un impiegato, un travet-burocrate che svolge una mansione d’ufficio. Un erogatore (termine che ritorna spesso nel Documento) di pacchetti preconfezionati di informazioni. L’adulto non è per lo studente il lampo che rompe la nebbia, colui che apre e dischiude nuove prospettive, nuovi scenari inaspettati. Se lo scenario è già dato, tutto ciò perde ogni valore. Per questo la libertà di insegnamento è diventata una inutile suppellettile. È possibile immaginare che la lezione frontale venga combattuta in nome di ciò, in quanto questo tipo di lezione sventa il predefinito e apre perché dialettica. Al contrario, il lavoro di gruppo, afferma sempre Lyotard, è funzionale a trovare soluzioni pratiche in un gioco ad informazione completa.
Stesso discorso per i libri di testo. Con le conoscenze, con la pluralità di quelle che Lyotard chiama grandi narrazioni, ovvero diverse visioni e interpretazioni del mondo, esistevano vari indirizzi di libri di testo, ognuno rispondente ad una visione del mondo. Ora che la visione del mondo è una, tutti i libri sono di conseguenza simili tra di loro, perché corifei di questa unica visione che cade sotto il paradigma della strumentalità.
Se la conoscenza, i libri, la libertà di insegnamento e l’insegnante non devono più portare possibilità oltre l’esistente, si afferma l’informale, ovvero il dominio della società e della situazione sul singolo senza più dialettica tra questi due attori. A p. 3 della Raccomandazione si afferma: “l’importanza e la pertinenza dell’apprendimento non formale e informale sono resi evidenti dalle esperienze acquisite mediante la cultura, l’animazione socioeducativa, il volontariato e lo sport di base. L’apprendimento non formale e informale svolge un ruolo importante per lo sviluppo delle capacità interpersonali, comunicative e cognitive essenziali” (il Piano scuola estate, va in questa direzione, quella di spostare l’istituzione scolastica verso un piano informale). Ciò significa l’appiattimento e l’inserimento dello studente nel contesto dato e depoliticizzato, legandolo così ai piombi dell’epoca, del territorio e della famiglia nella quale è nato, in modo che riproduca l’esistente, perché non ci sarà più nessuna istituzione incaricata di trasformare ciò che c’è; non siamo più alla descolarizzazione liberante ed emancipante alla Illich ma alla descolarizzazione in funzione riproduttiva del dominante. Al centro di questa didattica per competenze non vi è più la conoscenza -libera e aperta- ma il contesto, quel contesto che non si deve contestare, ma mantenere nel tempo, come prescrive la Raccomandazione. Allo stesso tempo molta importanza e soldi vengono spesi per gli ambienti di apprendimento e lo abbiamo visto col PNRR. Ma all’ambiente, se non è fatto oggetto di pensiero, ci si adatta; esso viene oggi infatti trattato in modo neutro, quando invece è sempre veicolo di ideologia. Privilegiare l’informale significa includere il soggetto nel luogo geografico e sociale nel quale è nato, ed ecco l’Autonomia scolastica prima e l’Autonomia differenziata poi. Privilegiare l’informale in campo educativo significa occludere la possibilità del cambiamento a favore dell’adattamento. Che istruzione è mai questa? Si passa ad una scuola di matrice comportamentista, in cui l’apprendimento si svolge in una dimensione adattiva ed epidermica, non culturale né umana; una dimensione slegata da ogni interiorità foriera del nuovo, senza ulteriori cascami che intercorrono tra lo stimolo e la risposta. Un’educazione plastica, flessibile ed adattabile alle condizioni di contesto determinate dalla concorrenza economica; sicuramente non emancipatrice. Ecco la de-disciplinarizzazione oggi incipiente, attraverso l’ottenimento dello stesso risultato con meno ore, come nel caso della storia alla Secondaria. Questa è la scuola delle competenze, comportamenti come risposte immediate ai bisogni del contesto.
Già Lyotard aveva previsto che la scuola “dovrà fornire al sistema sociale le competenze che rispondono alle sue specifiche esigenze, che sono quelle di conservare la propria coesione interna”. Se le competenze portano alla ribalta il comportamento corretto da ottenere, ecco che si afferma di risposta un moralismo che trova riscontro nella Raccomandazione: “analogamente, il quadro di riferimento delle competenze per una cultura democratica del Consiglio d’Europa presenta un corredo esaustivo di valori, abilità ed atteggiamenti per partecipare adeguatamente alle società democratiche”. La pedagogia delle competenze è prossima al disciplinamento, dal momento che valori e comportamenti sono prescritti. Una sorta di nuova religione moraleggiante di impronta mondana.
Assistiamo qui ad un principio di rovesciamento: la scuola deve farsi ingranaggio della riproduzione dell’esistente. E lo deve fare modellando, individuando i soggetti affinché entrino in questo modello. Ecco il lifelong learning, o adattamento per tutta la vita. Per questo, nella scuola delle competenze sono stati creati i docenti orientatori. Perché l’orientamento non è da intendersi come perseguimento delle inclinazioni soggettive, bensì guida verso i posti lasciati liberi dalla concorrenza e necessari per lo status quo. Il centro è il contesto, non l’uomo; e questo deve saper orientarsi nell’ambiente dato, senza trasformarlo o metterlo in discussione. Ecco il concetto di inclusione, il cui mezzo è l’orientamento.
Assistiamo ad un rovesciamento nella funzione della didattica: se nell’approccio centrato sulla conoscenza la didattica si fonda su dei criteri interni alla disciplina funzionali alla sua assimilazione, tanto che la didattica scaturente da tale approccio risponde ai criteri della gradualità e della progressività, tutto ciò viene spazzato via nell’approccio per competenze. La didattica, secondo questo approccio, si fa enunciativa: ovvero indica obiettivi e risultati da raggiungere (ecco la sempre più pervasiva attenzione alla didattica, dalla scuola secondaria di secondo grado fino all’università). Ciò che conta è il comportamento, da ottenere nel modo più rapido anche senza assimilazione; ecco la centralità dell’apprendimento di cui parla Biesta. Un apprendimento che deve essere visibile, quantificabile e misurabile. Perché la competenza affonda le sue radici nell’utilitarismo e nel comportamentismo. Non importa cosa avviene all’interno del soggetto, ciò che conta è l’output. Utilitarismo che porta con sé anche la misurazione, perché essa è il criterio, come sottolineano Dardot e Laval in La nuova ragione del mondo (2013), con cui quantificare l’utilità in termini di efficacia ed efficienza in vincolo di risorse. La competenza dunque appiattisce tutto in una dimensione pratico-esecutiva. Non culturale e perciò chiusa, così da favorire lo status quo.
Con la competenza così intesa, la didattica assume una funzione estrattivista: non si incarica più arricchire il soggetto trovando il modo migliore per farlo, ma di estrarre il valore dal singolo (ecco la decantata valorizzazione dei talenti degli studenti) per proiettarlo verso l’esterno. La didattica per competenze è dunque funzionale allo sfruttamento del capitale umano per favorire lo status quo. Si passa dall’interiorizzazione/rielaborazione del sapere allo sfruttamento di sé o, peggio, all’interiorizzazione dello sfruttamento di sé; come nel caso dell’autovalutazione, che è incentivata nella Raccomandazione, perché se ognuno sa quanto vale, si evitano sprechi di risorse in tentativi inutili. La valutazione lascia così il passo alla certificazione delle competenze di cui ciascun individuo è portatore. Essa è fondamentale al movimento dei ca-pitali e delle persone, come affermato negli accordi di Schengen. Il capitale umano può spostarsi sul suolo europeo e chi lo accoglie sa con precisione dove può essere sfruttato al meglio. A p. 2 della Raccomandazione, si può leggere: “il quadro europeo delle qualifiche, che presenta un quadro comune di riferimento per confrontare i livelli delle qualifiche con l’indicazione delle competenze richieste per conseguirle. La valutazione, inoltre, può contribuire a strutturare i processi di apprendimento e facilitare l’orientamento, aiutando le persone a migliorare le loro competenze anche in vista delle mutate esigenze del mercato”.
Funzionale alla scuola delle competenze, dove i risultati attesi sono predefiniti, è la valutazione attraverso test. Una valutazione fondata perciò sulla singola performance – misurabile – rispetto ad un risultato atteso di matrice comportamentale. Da qui un carico enorme di valutazioni per gli studenti, tutte slegate le une dalle altre. Nel test viene misurato lo scartamento tra prestazione e risultato atteso, facendo emergere la funzione giudiziaria di questo tipo di valutazione; riferirsi alla soggettività dello studente crea perciò ansia, così alcuni pedagogisti propongono sventatamente l’eliminazione dei voti mantenendo la causa, ovvero la didattica per competenze. Nella scuola fondata sulla conoscenza la valutazione mira invece a verificare che gli elementi fondamentali del sapere siano acquisiti, senza raffrontarli minimamente con uno scenario ultimativo come fosse un’ordalia.
Per concludere, vediamo come l’esigenza di sfornare capitale umano adeguato e coincidente con i bisogni del sistema nell’ultimo istante, si trasformi nel suo contrario. Infatti la scuola impiega del tempo a plasmare individui fungibili; in ritardo rispetto alle trasformazioni dovute alla concorrenza. Come fare a risolvere il problema del connaturato ritardo? Ecco palesarsi il livello più astratto delle competenze, ovvero quelle non cognitive. Con esse, infatti, si rendono plastici gli individui, adattabili a qualunque contesto senza capacità di modificarlo. Ecco l’adattamento, la resilienza, la positività e la disposizione a lavorare in gruppo, così da smussare nel consenso le asperità. Perciò l’esigenza pratica di saperi concreti, si trasforma nel suo contrario, ovvero nella massima astrazione.
Si può affermare che la didattica per competenze è figlia di una società completamente monetarizzata, in cui domina la finanziarizzazione e il cui scopo non è la produzione, per la quale serve una scuola della conoscenza, bensì l’estrazione di valore e il suo accentramento in poche mani.
La didattica per competenze è regressiva, perché non crea spiriti liberi, rispondendo così ad un progetto asfittico, senza futuro, che coincide con il consumo e il futile godimento (usato a scopo estrattivista) di tutto, senza nessuna trasformazione del mondo, nessuna possibilità e aperture dirompenti.