Da «Canone inverso»
Oggi del Collegium Musicum non rimane più traccia se non una pietraia ricoperta da erbacce. Mi servirebbe una cartina dettagliata per farle vedere l’esatta ubicazione di quell’edificio, diventato durante la guerra un deposito di munizioni, e fatto saltare in aria prima della disfatta. Ed è una fortuna che quell’orribile posto sia stato cancellato, seppure non dalla mia memoria. Anche a quel tempo non era facile arrivarci. Sorgeva infatti nella Bassa Austria, lungo la valle del Danubio, sulla strada che da Stockerau porta verso Tulln. Si poteva scorgere solo passandoci in treno, perché era fuori delle strade comunemente battute. Da lontano appariva come una fortezza costruita sulla nuda roccia. E anche all’interno tutto sembrava rivolto su se stesso e chiuso al mondo esterno, ché al di fuori l’edificio apriva solo rare feritoie su un paesaggio brullo e pietroso, su un orizzonte offuscato che non lasciava intravedere neppure lontanamente un solo segno di quel consorzio umano che temevamo di aver lasciato per sempre. L’unico spazio aperto, simile però a una vallata circondata da montagne, dove il sole sfiora appena i crinali, era un cortile ricoperto di pietrisco e attorniato da portici sotto i quali spiccavano i busti in bronzo degli illustri docenti del passato, che, nelle dimensioni in cui erano stati riprodotti, apparivano come mostruosi macrocefali.
A questo cortile potevamo accedere solo due volte al giorno: la sera per l’ora di ricreazione, e la mattina, all’alba, per gli esercizi ginnici. Per il resto della giornata vivevamo al chiuso, sottoposti a una disciplina militaresca. Le nostre stanze erano celle anguste con una sola finestrella, dalla quale tuttavia non ci si poteva sporgere, perché era troppo alta e sprofondata in una parete più spessa di un braccio. In queste celle non c’era nulla su cui sedersi fuorché la branda a ribalta; e questa, una volta abbassata, non lasciava più lo spazio per stare in piedi, se non addossati al muro. Alle nove di sera le porte di questi abitacoli venivano chiuse dall’ esterno, le luci si spegnevano e nessuno poteva uscire fino alle cinque del giorno dopo, quando ci riunivamo tutti nel cortile per gli esercizi a corpo libero, estate e inverno, con qualsiasi tempo. Poi ci precipitavamo alle docce, che erano piccoli stabbi di legno, vere e proprie trappole, dove, prima di aprire la porta, bisognava ruotare con forza una manopola dentata, un congegno a molla che a fine corsa scattava, chiudendo all’interno chi si era permesso di superare i cinque minuti concessi per lavarsi. Il ritardatario restava così imprigionato per tutta la giornata, e sul registro gli veniva annotata un’assenza ingiustificata. E guai a chi, da fuori, osava liberarlo, perché avrebbe subito la stessa sorte. Ma in realtà nessuno correva questo rischio, perché il Collegium Musicum era un campo di competizione feroce, dove ognuno pensava solo a se stesso. Ogni sgarro aveva una precisa valutazione sulla pagella dell’allievo, e bastava poco per rischiare l’espulsione. Regole e proibizioni non si contavano. Non si potevano tenere con sé oggetti d’oro, denaro, lettere, giornali, libri che non fossero quelli di scuola; non si poteva cantare, parlare, fare rumore. Era proibito appoggiarsi ai muri o stare seduti, anche durante l’ora di ricreazione. E le poche volte che ci era concesso di sedere, dovevamo restare impettiti. senza toccare lo schienale. E questo atteggiamento marziale dovevamo mantenerlo sempre, in qualsiasi momento: ogni cosa andava fatta in fretta e ogni spostamento di corsa.
Alle cinque e mezzo ci trovavamo tutti nel refettorio, dove, in piedi davanti ai tavoli, dovevamo recitare interminabili preghiere e intonare inni e canti prima di poter consumare il pasto, per il quale ci veniva concesso solo un quarto d’ora. Alle sei in punto dovevamo trovarci nelle nostre celle. Dopo aver rifatto il letto con scrupolosa precisione, e sollevata la branda, agganciandola al muro, ché altrimenti non ci sarebbe stato lo spazio sufficiente per muoversi, per due ore ci esercitavamo al violino. Due ore di esercizi nelle condizioni più disagiate che si possano immaginare, con un’acustica che in una tomba sarebbe stata migliore. Ciascuno eseguiva i propri esercizi in mezzo alla più sconvolgente dissonanza. A volte ti sembrava di udire lo strepito e il batto d’ali di migliaia di uccelli in fuga all’approssimarsi di un uragano, altre volte il terribile mugghio proveniente da un serraglio in fiamme. E a tutto questo si aggiungevano i colpi di bastone, inferti sulle porte da un guardiano che, con la precisione di un fantoccio meccanico, passava su e giù per il corridoio, ora da un lato ora dall’altro, manifestando a quel modo la sua vigilanza. Nessuno doveva illudersi, anche per un solo istante, di poter oziare. Credo che nulla si avvicinasse di più all’immagine evangelica dell’inferno con il suo pianto e stridor di denti. Alle otto lasciavamo le nostre celle per entrare in classe. Il Collegium Musicum, infatti, non era solo una scuola di musica, ma anche un regolare ginnasio con tutte le materie umanistiche e scientifiche comuni a ogni istituto statale.
Il Collegium aveva tre ripartizioni distinte. Quella per lo studio degli strumenti ad arco, in cui mi trova- vo, era la più numerosa, e si trovava sul lato sud dell’enorme edificio. Sempre sullo stesso lato, seppure isolata dalla nostra, c’era la sezione per lo studio del pianoforte e degli strumenti a fiato. Infine sul lato nord si trovava il convitto femminile. Di quest’ultimo non si sapeva nulla più di quanto si potrebbe scoprire sulla vita di un convento di clausura. Solo di sera, guardando in lontananza, potevamo immaginare che dietro a quelle finestre illuminate si muovesse qualche figura femminile.