Da «La paura»
A pugni stretti, fremente, Alfani fissava la piazzola. Mai, in due anni di guerra, nelle mischie terribili, sotto il grandinare della mitraglia, fra le messi sanguinose degli uomini falciati a manipoli, a schiere, egli aveva provato il raccapriccio che ora lo invadeva dinanzi a quella lenta, metodica e inutile strage. Nelle circostanze più gravi, nelle situazioni più imbarazzanti, per temperamento e per ragionamento egli era stato sempre certo di non sbagliare attenendosi strettamente alla consegna; ora no, ora esitava, ora sentiva che quella consegna costava già troppe vite.
Infrangerla? Assumersi la responsabilità delle conseguenze… Il Consiglio di guerra, allora; il plotone di esecuzione. Ah, no! Una pistolettata nella tempia, prima! O andare sulla piazzola, piuttosto: accorrere presso i caduti, piantarsi egli stesso al posto dei suoi soldati!
E mosse un passo.
Ma Borga, che ne spiava le mosse, che gli aveva letto in viso, alzò la voce:
«A chi l’è che tocca?».
«Nummero uno d’a siconna squadra!».
Tutti gli uomini del secondo turno della prima giacevano a terra.
«Morana!» chiamò il capoposto.
Nessuno dei soldati ripeté il nome, mentre il nuovo chiamato si avanzava, pallido ma con passo fermo.
Era un prode, un veterano d’Africa: aveva il petto fregiato del nastrino azzurro per una medaglia di bronzo guadagnatasi in Libia con una motivazione degna di quella d’argento. Bel giovane, alto, forte, animoso: Alfani lo aveva esperimentato in molte occasioni, e sempre se n’era lodato, predicendogli che quel nastrino ne avrebbe presto figliato altri.
Poiché l’atroce ingranaggio incominciava a funzionare, poiché il destino inesorabile doveva compiersi meccanicamente egli disse, studiandosi di dare fermezza alla voce:
«Be’, Morana: questa è la volta di far vedere come si compie il proprio dovere».
Senza lasciare con gli occhi gli occhi del superiore, il soldato rispose:
«Signor tenente, io non ci vado».
Alla prima, Alfani credette d’aver frainteso.
«Cos’hai detto?».
Livido, Morana rispose, più forte:
«Signor tenente, io non ci vado».
Invaso da un immenso stupore, l’ufficiale volse lo sguardo agli astanti. Taciti, immobili, agghiacciati evitavano tutti di guardare il loro comandante, evitavano di guardarsi tra loro. L’orrore di ciò che avevano visto era superato dal terrore di ciò che udivano, da quel rifiuto d’obbedienza freddo, risoluto; premeditato.
E dinanzi all’inaudito rifiuto il sentimento della disciplina insorse nella coscienza dell’ufficiale.
«Avete sentito, voialtri?».
Nessuno rispose.
Egli rise d’un falso riso.
«Oh, oh!… Questa davvero che è nuova».
Poi, non volendo e quasi non potendo credere:
«Andiamo, Morana: guarda che non è tempo da scherzi. Piglia il tuo fucile, e svelto!».
Parve un momento che lo sguardo del soldato si smarrisse. Poi diede un lampo, e la voce strozzata ripeté la terza volta:
«Signor tenente, io non ci vado».
Alfani avvampò. Appuntandogli un dito contro il viso terreo e avanzandosi d’un passo, esclamò:
«Tu…Sei tu che ti neghi? … Un valoroso come te?… O non sei più il Morana del Passo dell’Antenna e del Casello di Breno?… O non sei più quello che ha visto a faccia a faccia i diavoli di Libia e li ha fatti scappare?».
Improvvisamente, il soldato fu preso da un tremore che dalle mani e dalle braccia si diffuse a tutta la persona.
Ed anche Alfani rabbrividì, mentre per l’aria agghiacciata stillavano le prime gocce di neve strutta.
«Ma cos’è?… Hai paura?… Anche tu?».
Gli occhi smarriti, le labbra paonazze dicevano di sì, che egli aveva paura, tanta paura, una paura folle, ora che non si doveva combattere in campo aperto, ora che l’orrida morte era accovacciata lassù.
E la pietà, una pietà impotente, tornò ad invadere il cuore dell’ufficiale dinanzi a quell’uomo che la legge della guerra gli dava il diritto di uccidere.