MAURO PIRAS L’orale della cosiddetta maturità

Il Mulino, 10 luglio 2025

La prova orale si riduce a una sequela di approssimazioni e collegamenti superficiali, non per la mediocrità degli studenti, ma per la mediocrità dell’esame stesso

Il percorso scolastico dello studente italiano finisce nel modo più mediocre. L’orale dell’esame finale (quello che chiamiamo ancora pigramente “di maturità”) è una sequela di approssimazioni e superficialità in cui anche il migliore degli studenti è condannato a cadere. Non si tratta delle solite cose, note da quando esistono esami come questi: gli strafalcioni, le scene mute, le confusioni di concetti e cose, l’umorismo inconsapevole. Queste sono contingenze ordinarie: gli studenti mediocri ci propongono sempre spettacoli del genere. Il problema qui non è la mediocrità degli studenti, ma la mediocrità dell’esame, dell’istituzione.

Qualunque docente, studente o genitore sa di che cosa sto parlando. Il colloquio dell’esame finale procede così: la commissione propone al candidato un “materiale” (un documento, un testo, un’immagine, un problema ecc.), da cui inizia il colloquio. Il candidato deve commentare e analizzare il “materiale” e poi passare da una disciplina all’altra facendo i “collegamenti”. Per chiarirci: come dalle tasche di Eta Beta, bisogna estrarre dal “materiale” (che so, una foto della simpatica passeggiata di Hitler a Firenze nel 1938), qualsiasi cosa, cioè un argomento per tutte le materie presenti in commissione. Ecco quindi che inizia il parkour acrobatico del candidato o della candidata: ci s’ingegna a trovare il collegamento da storia (da cui siamo partiti) a italiano (dài, mettiamoci La primavera hitleriana di Montale) a scienze sociali (tipologie del potere di Weber, il potere carismatico – dài, che me la sto cavando bene) a diritto (la divisione dei poteri nella Costituzione, in contrasto con i totalitarismi – sono proprio in gamba) a inglese (non vuoi metterci Orwell? Perfetto!) a spagnolo (l’immancabile Francisco Franco – fila tutto liscio) e infine arte (ahi, e qui che ci metto? Ah sì, abbiamo fatto quel quadro di Daumier con il tipo che parla alla folla… O mi ricordo male, sono io che l’ho visto da qualche parte?).

Beh, direte voi, non così male. E invece sì. Intanto, in questa piccola finzione non c’è una materia scientifica, cosa che può capitare in una commissione del Liceo economico sociale, in cui in più ci sono le scienze sociali che aiutano molto a fare da collante. E non c’è il latino. Immaginatevi la stessa scena allo scientifico, con la matematica e la chimica, o al classico, con in più anche il latino e il greco. Un mélange adultère de tout, diceva il poeta. Un pasticcio immondo e indigesto, in cui qualsiasi persona di cultura media e con una sensibilità educativa prova costantemente un vago senso di nausea. E il problema non è, ripeto, la superficialità di quello che viene detto nei singoli passaggi (che dipende da molti fattori), ma la superficialità del metodo stesso: l’idea di partire da un punto e da lì percorrere tutto, perché tutto è collegabile. Sei gradi di separazione, casca proprio bene, con sei commissari. Alla fine la valutazione si concentra ampiamente sulla “capacità di fare i collegamenti”, i docenti stessi non fanno che parlare di questo: quando intervengono dicono cose tipo “non ti sembra che si possa collegare x a y?”. Certo, vengono valutati anche i singoli contenuti, ma in serie: “Per italiano l’orale è andato così”, “per filosofia cosà”.

Chiunque assiste a questi orali per più giorni vive una vertiginosa esperienza di perdita di senso; l’unica cosa che può fare è andare avanti turandosi il naso fino all’agognata fine di questo teatrino indecoroso. E alla fine di tutto pensa che l’intero percorso di uno studente, tutto quello che ha fatto di buono o di bello negli anni, finisce in questa scena penosa.

Ma perché siamo qui? Com’è stato generato questo mostro? La storia è questa. Prima di questo esame c’era il cosiddetto “esame Berlinguer”, quello nato nel 1998, che prevedeva tre prove scritte (italiano, materia di indirizzo e terza prova), in cui la terza prova, che doveva essere interdisciplinare, era diventata alla fine un’interrogazione scritta in quattro o cinque materie; e poi c’era un orale su tutte le materie presenti in commissione, che di fatto diventava una replica della terza prova, cioè un’interrogazione in sei materie. Un doppione piuttosto irrazionale.

Un decreto delegato della cosiddetta “Buona scuola” decise di cambiare (fermi lì! Vedo già le schiere di detrattori della “Buona scuola” ringalluzzirsi, invece la cosa è più complicata). Questo decreto (per la cronaca Dlgs 62/2017) ha tra l’altro semplificato l’esame finale del secondo ciclo: due scritti (italiano e materia d’indirizzo) e orale. Per l’orale, il decreto propone quanto segue (art. 17 comma 9), in termini piuttosto chiari, direi:

Il colloquio ha la finalità di accertare il conseguimento del profilo culturale, educativo e professionale della studentessa o dello studente. A tal fine la commissione, tenendo conto anche di quanto previsto dall’articolo 1, comma 30, della legge 13 luglio 2015, n. 107, propone al candidato di analizzare testi, documenti, esperienze, progetti, problemi per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle per argomentare in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera.

Non è scritto troppo male, e dice una cosa ovvia: “propone al candidato di analizzare testi, documenti, esperienze, progetti, problemi”. Mi scuso per la ripetizione e per i corsivi, ma è per me sempre oggetto di sorpresa vedere che nel testo di legge si usa il plurale! Il legislatore, come qualsiasi persona sensata, non ha scritto che viene proposto al candidato un “materiale” (parola che non c’è), ma che vengono proposti diversi tipi di documenti. Si capisce quindi che, molto ragionevolmente, si suppone che ogni commissario possa ascoltare il candidato “per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline”, tuttavia non deve farlo “interrogandolo”, con domande tipo: “Mi parli della Primavera hitleriana”, o peggio: “Qual è la poesia di un grande poeta italiano che parla della visita di Hitler a Firenze?” ma, invece, deve proporre al candidato il testo della poesia; il suo collega di diritto gli proporrà gli articoli della Costituzione sulla divisione dei poteri. Eccetera.

Invece no, questa prospettiva di ragionevolezza che balugina tra le righe del decreto legislativo (che, ci è stato insegnato, è norma di legge, quindi superiore nella gerarchia delle fonti a circolari e ordinanze) è stata spazzata via, non ha mai visto la luce, perché fin dall’inizio, fin dalle prime conferenze di servizio sul nuovo esame di stato nel 2019 e fin dalle prime ordinanze, è comparso “il materiale”, unico e inscalfibile come un monolite.

Ed ecco quindi il testo dell’ultima ordinanza sull’esame di Stato del secondo ciclo, che ricalca tutte le precedenti. Il colloquio si svolge a partire dall’analisi, da parte del candidato, del “materiale” scelto dalla commissione/classe, attinente alle “Indicazioni nazionali per i licei” e alle “Linee guida per gli istituti tecnici e professionali”. Il “materiale” è costituito da un testo, un documento, un’esperienza, un progetto, un problema, ed è predisposto e assegnato dalla commissione/classe ai sensi del comma 5 (Ordinanza ministeriale 67/2025, art. 22 comma 3).

Il corsivo è mio, come si dice: serve a mostrare che qui siamo in un altro pianeta. C’è un solo “materiale”. Niente di tutto questo era presente nella norma di legge, né l’unicità parmenidea né la materialità. Tuttavia, se si fa come dice l’ordinanza, cioè come dice il ministero, il risultato finale è quello descritto sopra. Ora, è evidente a tutti che c’è un contrasto tra quanto dice l’ordinanza e quanto dice il testo di legge, ed è altrettanto evidente che questa interpretazione della norma è frutto del potere dell’amministrazione che si è interposta tra il legislatore e il cittadino. Per ragioni imperscrutabili, ma ben radicate nella storia del nostro Paese fin dall’Unità, l’amministrazione centrale prevale sul potere legislativo, e impone la sua curiosa visione della didattica, monolitica, materica e tutta collegamenti acrobatici.

Il minimo che si può dire è che è arrivato il momento di fare esplodere questa contraddizione, per usare un vecchio linguaggio. Se vogliamo dare una dignità all’orale dell’esame finale, la comunità dei docenti, degli specialisti di didattica e pedagogia, di tutti quelli che hanno a cuore la scuola dovrebbe aprire un dibattito sincero su questa prassi non giustificata dalla norma e su quale debba essere il modo migliore per interpretare la legge e fare un buon orale. Tenendo conto che, nel quadro attuale, la prima e la seconda prova non se la cavano poi così male. Altrimenti, l’unica opzione è abolirlo proprio, questo esame.