Da «Rayuela. Il gioco del mondo»
Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimado lamentoso e doveva invulsinarsi di fronte al novelo, sentendo in qual modo a poco a poco le arniglie si specunnavano, peltronandosi, redduplinandosi, fino a restare come il trimalciato di ergomanina al quale son state lasciate cadere delle fillule di cariconcia. E tuttavia era appena il principio, perché a un certo punto lei si tortorava gli irgugli, permettendogli di avvicinarvi dolcemente gli orfenni. Appena si intrapiuvavano, qualcosa simile ad un ulucordio li faceva raccrestare, li contrunniva e li parammoveva, all’improvviso era l’urgano, la stervorosa convolcante delle materglie, l’annesante imboccapluvia dell’orgomio, gli esproemi del mirpasmo in una surrumitica argopausa. Evohé! Evohé! Avvolpati nella cresta del morelio, si sentivano balparamare, perlacei e marili. Tremava il troc, erano vinte le marpenne, e tutto si ressogliva in un profondo pinnice, in nioremi d’argatesi garze, in carenie quasi crudeli che li artavagliavano fino al limite delle cunfee.
Nota: questo capitolo è un esempio del «glíglico», linguaggio immaginario che si pone come beffa del linguaggio razionale. Attraverso la musicalità del linguaggio il lettore immagina la passione erotica dei personaggi senza sapere il significato delle parole.