«Professione docente», marzo 2025
Il dibattito suscitato dalle nuove Indicazioni nazionali per i programmi dei cicli inferiori d’istruzione, e dai commenti a riguardo del ministro Valditara, è stato quanto mai ondivago e contraddittorio, non riuscendo a nostro parere a focalizzare l’attenzione sui nodi concettuali che – almeno dal punto di vista docente – dovrebbero essere prioritari quando si affronta il tema della riforma della scuola. Marcello Veneziani, in un furbo commento, ha voluto offrire un ritratto del ministro quale difensore dei saperi disciplinari, in contrasto con la retorica delle competenze che ha prevalso negli ultimi decenni. Poiché su queste pagine abbiamo più volte difeso la centralità del sapere disciplinare nel processo formativo, ci sentiamo in parte chiamati in causa, non condividendo affatto quest’immagine dell’attuale ministro.
La critica netta che ci sentiamo di avanzare a queste nuove Indicazioni nazionali riguarda certo la declinazione sfacciatamente ideologica che viene proposta del sapere storico. Ancora una volta la disciplina viene subordinata a un obiettivo formativo estraneo alla sua sostanza concettuale, laddove qualsiasi problematica (e il rapporto tra l’Occidente e le altre culture potrebbe indubbiamente essere oggetto di riflessione in classe) deve essere proposta nella complessità che emerge dal dibattito storiografico, e che dà luogo a interpretazioni differenti, nessuna delle quali può vantare maggiore legittimità. Ovviamente, nel caso del ciclo primario, non avrebbe senso porre i giovani studenti a confronto con il materiale storiografico (sempre più assente ormai persino nei manuali della scuola superiore); ma l’insegnante tali contenuti li deve conoscere, per poterli declinare nei modi e nella complessità adeguata agli anni di corso degli alunni.
Invece, da quello che è dato capire da quanto finora comunicato, l’insegnamento storico (sostenuto anche da altri curricoli dell’area umanistica) dovrebbe infondere un sentimento di orgoglio per l’appartenenza a una determinata cultura nazionale, costruire una sorta di personalità “occidentale” (qualsiasi cosa si voglia dire con questa imprecisa espressione). Se, come nelle Linee Guida di Educazione civica, l’idea è quella di condizionare le libere convinzioni, di plasmare la soggettività, viene meno il rigore, metodologico oltre che contenutistico, della disciplina.
C’è però qualcosa che sorprende in quest’ultima uscita del ministro. La sua politica sinora ha accentuato la subordinazione della scuola alle logiche di mercato (con la riforma degli indirizzi tecnico-professionali e le nuove Linee Guida di Educazione civica), in linea con gli esecutivi precedenti e i contenuti del PNRR. Come può allo stesso tempo farsi paladino di chi vuole restaurare la didattica disciplinare? Siamo di fronte a una politica schizofrenica? un servire due padroni, i quali però non hanno identico potere di condizionamento? Oppure esiste una coerenza, per cui tale presunta valorizzazione delle discipline si rivelerebbe solo retorica distraente? Nel numero di novembre di “Professione Docente” abbiamo provato ad argomentare la coerenza, nelle nuove Linee Guida di Educazione Civica, tra il concetto di “patria”, inteso in senso fortemente identitario, e l’esaltazione dell’imprenditorialità privata, ben oltre i limiti che ad essa assegna la Costituzione.
In questo caso, riteniamo si tratti di un’accorta, nonché furba, operazione di cosmesi politica. Il ministero nei suoi provvedimenti di maggior peso ha agito in completa continuità con l’idea, in auge da decenni, che la scuola debba essere subordinata al mercato, addirittura affidando parte dell’attività didattica a figure esterne estranee alla professionalità docente.
Non si tratta quindi di astenersi dalla denuncia di una svolta reazionaria con cui l’attuale esecutivo vorrebbe condizionare l’insegnamento delle discipline umanistiche, identificando la propria posizione politico-culturale con i contenuti imprescindibili della disciplina; ma, nel farlo, bisogna mantenere salda la difesa del sapere disciplinare, sotto attacco tanto dalle strumentalizzazioni ideologiche quanto dalla logica delle competenze.
Di fronte a questa grave trasformazione della scuola, coerente con la strategia della learnification, il fatto che l’attuale ministero si ritagli uno spazio per imporre alle discipline una visione ideologica in linea con il proprio schieramento politico ci sembra atteggiamento condannabile ma facilmente aggirabile. Si tratta di una decisione sicuramente indebita, da contestare nel merito e da denunciare sul piano politico, anche in base al carattere democratico che deve contraddistinguere l’istituzione scolastica, ma difficilmente erge a difesa dei contenuti, per far credere che la propria concezione didattica – in linea con la logica utilitaristica dell’istruzione propria del progetto neoliberale – sia progressista e quindi radicalmente contraria alla politica dell’attuale ministro dell’istruzione. Le stesse voci però non si sono alzate a denunciare la politica di deculturizzazione, di ben più pesanti conseguenze, imposta agli indirizzi tecnico-professionali. Una trasformazione della scuola tanto più grave, poiché attorno a questa pretesa di valorizzare le competenze viene a costituirsi un apparato istituzionale (non solo linee guida, ma sillabi, corsi di formazione, azioni ispettive, forzature dei presidenti di Commissione all’esame di Stato) che mette molto più a rischio la libertà d’insegnamento, dal momento che risultano ben più difficili da praticare modalità alternative in linea con i propri convincimenti e la propria esperienza professionale. Non si tratta quindi di astenersi dalla denuncia di una svolta reazionaria con cui l’attuale esecutivo vorrebbe condizionare l’insegnamento delle discipline umanistiche, identificando la propria posizione politico-culturale con i contenuti imprescindibili della disciplina; ma, nel farlo, bisogna mantenere salda la difesa del sapere disciplinare, sotto attacco tanto dalle strumentalizzazioni ideologiche quanto dalla logica delle competenze, applicabile finché si mantiene saldo il principio della “libertà d’insegnamento”. Il docente può approfondire il tema della civiltà occidentale dal punto di vista dell’ideologia dell’imperialismo, della nascita al suo interno di fenomeni come il razzismo e il nazifascismo. E potremmo citare altri esempi attraverso cui si può aggirare tale imposizione occidentalocentrica, peraltro fortemente inattuale.
Certo, l’opposizione, e anche l’indignazione per quello che sembra un’ulteriore avanzata del processo di soggettivazione verso gli alunni, attraverso in questo caso le discipline, deve trovare una ferma opposizione intellettuale e pratica nelle classi. Ma ci lasciano perplessi le strumentali prese di posizione di chi in questi anni ha lavorato per l’indebolimento del sapere storico, subordinandolo alla logica delle competenze, e che improvvisamente si erge a difesa dei contenuti, per far credere che la propria concezione didattica – in linea con la logica utilitaristica dell’istruzione propria del progetto neoliberale – sia progressista e quindi radicalmente contraria alla politica dell’attuale ministro dell’istruzione. Le stesse voci però non si sono alzate a denunciare la politica di deculturizzazione, di ben più pesanti conseguenze, imposta agli indirizzi tecnico-professionali.
Una trasformazione della scuola tanto più grave, poiché attorno a questa pretesa di valorizzare le competenze viene a costituirsi un apparato istituzionale (non solo linee guida, ma sillabi, corsi di formazione, azioni ispettive, forzature dei presidenti di Commissione all’esame di Stato) che mette molto più a rischio la libertà d’insegnamento, dal momento che risultano ben più difficili da praticare modalità alternative in linea con i propri convincimenti e la propria esperienza professionale. Non si tratta quindi di astenersi dalla denuncia di una svolta reazionaria con cui l’attuale esecutivo vorrebbe condizionare l’insegnamento delle discipline umanistiche, identificando la propria posizione politico-culturale con i contenuti imprescindibili della disciplina; ma, nel farlo, bisogna mantenere salda la difesa del sapere disciplinare, sotto attacco tanto dalle strumentalizzazioni ideologiche quanto dalla logica delle competenze.