Da «L’Italia di piazza Fontana»
Cosa è stata la strage compiuta nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969?
Un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace, non rivendicata dagli esecutori, realizzata con l’intento di attribuire la responsabilità all’avversario politico e finalizzata a provocare una reazione psicologica a esso contraria nell’opinione pubblica.
L’attentato terroristico realizzato dal gruppo neofascista di Ordine Nuovo rappresentò il culmine di una serie continuata e organica di azioni eversive finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi fondamentali: trasferire dal terreno politico-sociale a quello politico-paramilitare i termini del conflitto sviluppatosi in Italia nel corso del biennio 1968-69; uccidere civili inermi per realizzare un’operazione psicologica di massa di segno regressivo nella società e nelle istituzioni; determinare la rottura dell’ordine pubblico attraverso la pratica del terrorismo e dell’azione armata disarticolando così il processo di ridefinizione dei rapporti tra Stato e società secondo lo sviluppo storico proprio della democrazia conflittuale.
Il profilo politico e l’impianto concettuale alla base di questa dinamica eversiva vennero sintetizzati nella formula della «strategia della tensione» con la quale si rappresentò quella peculiare combinazione di fattori che si propose di connettere la destabilizzazione della vita pubblica e civile, attraverso l’uso anonimo della violenza, con il processo d’impianto di una stabilizzazione politica, caratterizzata da istanze conservatrici e reazionarie, intesa come opposizione ai mutamenti di fondo della società contemporanea. Venne in questo modo aggiornandosi, tra il crepuscolo degli anni Sessanta e l’alba dei Settanta, quel conflitto continuità/rottura che aveva informato il carattere della transizione dell’Italia alla democrazia nel secondo dopoguerra.
La «continuità – scrive Claudio Pavone – non è sinonimo di immobilismo». Essa tende a esprimersi come un moto parimenti dinamico e forte di fronte alle spinte innovatrici di rottura, proponendosi di garantire il perdurare degli equilibri storici e degli assetti sociali e istituzionali dati. In questo senso la «strategia della tensione» iniziata nel 1969, che non si esaurì nella sola politica stragista, si misura come fenomeno storico non occasionale e di lunga durata nell’Italia repubblicana manifestandosi non solo come reazione al «nuovo» ma come declinazione contemporanea della persistenza dell’eredità del regime fascista negli apparati di forza dello Stato; negli uomini in essi collocati; nelle leggi che ne regolavano il funzionamento; nelle mentalità che ne caratterizzarono le prassi. E contestualmente tanto nei corpi sociali intermedi quanto nelle classi dirigenti, economiche più ancora che politiche, della società italiana.