CARLO EMILIO GADDA Io ho voluto la guerra

Da «Impossibilità di un diario di guerra», in «Il castello di Udine»

Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. Ho partecipato con sincero animo alle dimostrazioni del ’15, ho urlato Viva D’Annunzio, Morte a Giolitti, e conservo ancora il cartello con su Morte a Giolitti che ci eravamo infilati nel nastro dei cappelli. Del resto, pace all’anima sua. Io ho presentito la guerra come una dolorosa necessità nazionale, se pure, confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità.
E il mio giudizio circa la necessità della guerra è rimasto sostanzialmente coerente: con questo pero di tragico e di assurdo rispetto al delicato sentire de’ miei giùdici: con questo: che nella mia retorica anima[1] io giudico e credo molte sofferenze si sarebbero potute evitare con più acuta intelligenza, con più decisa volontà, con più alto disinteresse, con maggiore spirito di socialità e meno torri d’avorio. Con meno Napoleoni sopra le spalle e meno teppa e traditori dietro le spalle.
È evidente che son fuori del seminato. Perché sono ancora capace di odio contro chi denigrò, tramò, vilipese, indebolì, seminò scandalo e scismi: e contro chi non pensò, non vide, non predispose, non capì, non sentì, non curò. Sono un tal tanghero, che odio più i traditori dei nemici: gli àsini quanto nemici. E più gli spioni di casa che Conrad, sebbene odiassi con compiuta interezza anche lui. Sono un frenetico. Ma nessuna corazzata «Leonardo da Vinci» saltò in aria dai porti tedeschi: nessuna polveriera di Udine saltò per aria in Germania al primo giorno della Bainsizza, migliaia di tonnellate di proietti. Anche questa, del far montagne di balistite, era una nostra manìa. Bisogna fare tante montagnole, non una sola: il buon senso stesso lo dice. – Ma di ciò basti.
Ho sofferto: orrendamente sofferto: e delle mie angosce il 99 per 100 lo lascerò alla penna: il mio diario di guerra e una cosa impossibile, ognuno lo vede.
Ho fatto fuoco e comandato il fuoco con convinzione e con gioia: la fucileria disperata (nessun pezzo!) era un suono unico e fuso nella notte, dallo Zovetto al Lèmerle: la trentesima divisione di linea adempiva al suo dovere militare. Crateri infernali divelsero la foresta fùnebre: la fucileria era un boato unico e fuso nella notte dallo Zovetto al Lèmerle. Verdi o bianchissimi o rossi, i razzi illividivano i pini divelti: strane voci risuonavano da presso, come radunate minacce, i tonfi sordi dei limoni non si sentivano più.

[…]

«Verranno i tedeschi», mi dissero verso l’ottobre ’17: «venticinque divisioni tedesche, trentacinque divisioni tedesche » Guardavo con impazienza i miei informatori: Dio poi mi ha punito della mia retorica: ma questo è un resoconto e io devo registrare tutte le mie cattive azioni: allora alzai le spalle e dissi agli uomini: «…le pallottole della mitraglia bucano i tedeschi come bucano gli austriaci».
Dei miei «colleghi» non posso che dir bene: c’era talora qualche disparità di vedute e di modi: nella gran maggioranza essi furono più sereni di me, più calmi di me, più ragionevoli di me, più energici di me. Non avevano quei subiti scatti nervosi, né quei profondi abbandoni: resistevano meglio alla mancanza di sonno, alla fatica, alla routine. Non prendevano le cose così al tragico.
Qualcuno si ammalò, a furia di guerra. Mi ammalai anch’io, a furia di scatolette[2]. In genere curavano di più la tenuta, e questo trovo che è un sintomo di lucidezza, nelle distrette del male. Alcuni avevano una catenella d’oro al polso e morirono come fanciulli, sognando il Natale: avevano nel viso una luce, un sorriso: e l’angoscia mi riconduce pei vani sentieri della memoria, ma tutto tace, intorno, e tutto si oscura.
Ripenso altri volti, straziati o dissanguati in una lassitudine senza conforto: altri, di colpiti al cuore che parvero continuare nella morte la serena dignità della vita[3]. Inutilmente ripenso!
Allora nel rovinio tragico della pietraia, distesi un telo sui sacrificati: il sasso non dava tomba, o corona[4].

[1] «Oh my profetic Soul!», esclamò invece l’Amleto.

[2] I regolamenti militari vietano l’iterato use di carne in iscatola.
II Ns. si ritrovò in condizioni da dover contravvenire a questa norma e cadde gravemente malato (1916, dicembre).

[3] L’aspetto de’ colpiti nel cuore non denuncia lo strazio della morte; permane sereno.

[4] La corona dei legionari e dei martiri: («… civicam coronam…», Cesare; «… coronam vitae… », Apocalisse, II, 10): non quella spampanata ed illustre che si compera per lire 300 o poco più dai fiorai milanesi.
«Telo» è il telo da tenda regolamentare; t. militare moderno.

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