«De Rerum natura», VI 1138-286
Questa forma di epidemia è un soffio mortale che un tempo nell’Attica, terra di Cècrope, invase le campagne di luttuosi funerali, rese deserte le strade, vuotò la città di Atene dei suoi cittadini. Proveniente dal fondo dell’Egitto, dov’era nata, dopo un lungo viaggio attraverso l’aria sopra pianure fluttuanti, finì per abbattersi sull’intero popolo dell’Attica, terra di Pandiòne; e tutti a interi battaglioni erano destinati alla malattia e alla morte. Dapprima avevano la testa bruciante, tutta in fuoco, gli occhi rossi e brillanti di un lampo torbido. All’interno del corpo la gola tutta nera distillava un sudore di sangue; ostruito dalle ulcere, il canale della voce si chiudeva, e la lingua — interprete del pensiero — grondava sangue, indebolita dal male, troppo pesante per muoversi, ruvida e granulosa al tatto. Poi, attraverso la gola la malattia invadeva tutto il petto e affluiva in massa verso il cuore dolorante del malato; da questo momento tutte le barriere che trattengono la vita crollavano insieme. Il respiro emesso dalla bocca diffondeva un odore infetto, simile a quello che esalano i cadaveri decomposti abbandonati sul suolo. Poi l’anima perdeva tutte le forze, e il corpo cadeva in una debolezza improvvisa, ormai alle soglie della morte. A questi mali intollerabili si aggiungevano un’angoscia ansiosa – loro compagna inseparabile – e lamenti misti a gemiti. Spesso un singhiozzo ininterrotto, di giorno come di notte, scuotendo con spasmi incessanti i nervi e le membra, spezzava il paziente, portandone al culmine l’esaurimento. Ma in nessun malato si osservava che la superficie del corpo e le parti esterne fossero particolarmente calde e scottanti; davano piuttosto al tocco della mano una sensazione di tepore. Allo stesso tempo, coperto di ulcere simili a scottature, il corpo era rosso dappertutto, come succede quando le membra sono invase dal fuoco sacro. Ma la parte interna era infocata sino alle ossa: una fiamma bruciava nello stomaco come all’interno di una fucina. Non c’era assolutamente un abito abbastanza leggero e sottile che i malati riuscissero a sopportare: il vento e la frescura erano la loro unica aspirazione. Gli uni immergevano nell’acqua gelata dei fiumi le membra brucianti di febbre, gettandosi tutti nudi nelle onde. Molti caddero con il capo in avanti nell’acqua dei pozzi profondi su cui si piegavano con la bocca aperta. Incapace di calmarsi, la sete essiccante, che li spingeva ad annegarsi nel liquido, non faceva differenze tra una piccola sorsata o un grande vaso. Nessuna tregua al male: esauriti, i corpi giacevano immobili. Presa da un terrore muto, la medicina non sapeva pronunciarsi, mentre il malato si rivolgeva a lei incessantemente con gli occhi spalancati, infocati per la febbre, privati completamente del sonno. A questo punto, molti altri sintomi di morte compaiono ancora: lo spirito smarrito, immerso nel dolore e nella paura, le sopracciglia aggrottate, lo sguardo truce e furioso, le orecchie sempre inquiete e piene di ronzii, la respirazione rapida o, al contrario, forte e lenta, il collo bagnato di un lucido sudore, gli sputi rari, piccoli, color zafferano e salati, strappati con difficoltà alla gola da una tosse rauca. I nervi delle mani si contorcevano, le membra erano agitate da fremiti. Gelando dapprima i piedi, il freddo raggiungeva a poco a poco tutto il corpo. Infine, nelle ultime ore, le narici si stringevano, la punta del naso si affilava, gli occhi si infossavano, le tempie si svuotavano, la pelle del viso era fredda e dura, un ghigno increspava la bocca, la fronte restava tesa. Poi le membra non tardavano a irrigidirsi nel freddo della morte. E, più spesso, al ritorno dell’ottava aurora o alla nona apparizione della fiaccola del giorno, li si vedeva render l’anima. Se uno di essi — come accade — sfuggiva alla morte, ròso da orribili ulcere, esaurito da un nero flusso del ventre, un po’ più tardi era tuttavia atteso al varco dalla consunzione, poi dalla morte. Spesso un fiotto di sangue corrotto, accompagnato da atroci mal di testa, sgorgava dalle sue narici intasate, e tutte le forze, tutta la sostanza dell’uomo, fuggivano per questa via. Se si sfuggiva a questa perdita spaventevole di sangue corrotto, allora la malattia si spostava nei nervi, nelle articolazioni e soprattutto negli organi genitali. Gli uni, spaventati nel vedersi sulle soglie della morte, prolungavano l’esistenza troncandosi col ferro gli organi del sesso; gli altri, senza né piedi né mani, persistevano tuttavia a vivere; altri ancora non avevano più occhi, tanto il terrore della morte li aveva penetrati. Ma si videro alcuni invasi dall’oblio di ogni cosa, al punto di non potersi riconoscere loro stessi. Malgrado l’abbondanza di cadaveri giacenti senza sepoltura, ammassati gli uni sugli altri, gli uccelli e le bestie selvagge stavano ben lontani da questa preda per fuggire la terribile infezione, oppure, dopo averne assaggiato, erano colpiti da languidezza, attesi e spiati da una morte imminente. Non c’era uccello che durante questi tristi giorni si azzardasse a mostrarsi; e le belve, accasciate, non uscivano mai dalle foreste: la maggior parte languiva nelle sofferenze e moriva. I cani, soprattutto: i cani dal cuore fedele, giacendo ovunque nelle vie, rendevano, fra i dolori, il soffio e la vita, strappati dalle membra dalla violenza della malattia. C’erano ovunque funerali, che si affrettavano a gara, senza corteo né prefiche. Nessun trattamento preciso per assicurare la guarigione: un certo rimedio che aveva permesso all’uno di continuare a respirare i soffi vivificanti dell’aria, a contemplare gli spazi celesti, affrettava la fine degli altri votandoli alla morte. Ma in questo flagello, la cosa più penosa e affliggente era che, appena il malato si vedeva invaso dal contagio, credendosi già condannato alla morte e perdendo ogni coraggio, giaceva immobile, il cuore colmo di amarezza; e ossessionato dalla vista dei propri funerali, rendeva sul colpo l’anima. In nessun momento il contagio del male insaziabile cessava di portare via gli uni dopo gli altri, come montoni lanosi o mandrie di buoi. Soprattutto questo accumulava funerali su funerali. Tutti quelli che evitavano accuratamente di visitare i parenti ammalati, erano ben presto puniti per questo amore eccessivo della vita, per questa paura della morte, da una morte vergognosa e miserabile, e morivano abbandonati, privi di soccorso, vittime a loro volta della propria indifferenza. Al contrario, quelli che non avevano mai lasciato i loro cari, soccombevano pure al contagio e allo sfinimento che l’onore gli faceva un dovere di affrontare, e anche gli accenti supplichevoli di cui i malati inframmezzavano i pigri lamenti. Così i migliori erano esposti a questa forma di trapasso […] alla rinfusa, affrettandosi a gara per seppellire il popolo dei morti; esausti da pianti e gemiti, se ne tornavano; poi, una gran parte, si ammalavano per il peso del dolore: né si poteva trovare alcuno che la malattia, la morte o il lutto non mettessero a dura prova a un certo momento.
Già i mandriani, i guardiani di greggi, i robusti conducenti dell’aratro ricurvo, tutti erano colpiti da illanguidimento; e ammucchiati al fondo delle capanne, stendevano i corpi immobili, che la povertà e la malattia restituivano alla morte. Su bambini senza vita si potevano talvolta ammassare i corpi inanimati dei genitori, e talvolta anche dei bambini rendere l’anima sopra i padri e le madri. E perloppiù proprio dalla campagna il contagio si diffuse in città, portato dalla folla dei villici che la malattia vi faceva affluire da ogni parte. Riempivano tutti i luoghi, tutti gli edifici pubblici, così l’epidemia, trovando nelle loro file serrate una preda più facile, ammassava cadaveri a mucchi. Molti, morendo di sete per strada, cadevano improvvisamente al suolo e ricoprivano i bordi delle fontane pubbliche, soffocati dall’eccesso della dolce bevanda. Molti, sparsi nei luoghi aperti al pubblico e per le strade, esausti, mezzi morti, offrivano come uno spettacolo i corpi imbrattati di lordura, coperti di stracci, e soccombevano in questa spaventosa sporcizia. Sulle ossa non restava che la pelle, già quasi tutta ricoperta da spaventose ulcere e uno strato di sudiciume. Anche i santuari degli dei, la morte finì per colmare di corpi senza vita, e dovunque i templi degli abitanti del cielo restavano ingombri dei cadaveri di tutti gli ospiti di cui i guardiani li avevano riempiti. Né la religione né la potenza divina contavano qualcosa in un tale momento: l’angoscia presente era ben più forte. Non si vedevano più nella città celebrare i riti funebri che quel popolo pio aveva fin allora praticato per l’inumazione dei suoi morti. I cittadini smarriti si agitavano in disordine: ognuno, col cuore stretto, seppelliva i suoi come lo permettevano le circostanze. Grandi orrori furono compiuti, consigliati dalla necessità dell’ora e della povertà. E se ne videro che, sui roghi eretti per gli altri, collocavano, con grandi pianti, i corpi dei propri parenti e ne avvicinavano la torcia infiammata, sostenendo lotte sanguinose piuttosto che abbandonare i loro cadaveri.
Traduzione di Olimpio Cescatti